Francesca Dondi, 35 anni, laurea in Bocconi e 4 promozioni in banca: «Ma quando ho avuto il terzo figlio mi sono dimessa, è stato inevitabile»

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di Giampiero Rossi

Milano, la carriera interrotta per dedicarsi a tempo pieno ai bimbi: «La famiglia numerosa era un desiderio ed è stata una scelta. Però il lavoro mi manca. E ho perso l’indipendenza economica. L’azienda ha fatto il possibile, ma servirebbero politiche che sostengono davvero i genitori»

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Ripubblichiamo l’intervista di Giampiero Rossi a Francesca Dondi uscita a febbraio, una delle più apprezzate dalle nostre lettrici e dai nostri lettori nel 2024.

La carriera in banca era lanciata, appena entrata ha bruciato le tappe. Poi sono arrivati i figli e allora lei ha dovuto compiere la scelta: rimanere a casa, fare la mamma a tempo pieno e affidarsi al reddito di suo marito. La storia di Francesca Dondi, 35 anni e tre bambini amatissimi, assomiglia a quella di tante altre donne (sul Corriere abbiamo raccontato quattro anni fa quella di Chiara: «Non dovevi fare un altro figlio, se torni al lavoro ti faremo morire»). Questa volta, forse, non c’è nessun «cattivo», ma c’è una realtà con cui fare i conti.




















































Signora Dondi, ricostruiamo la prima parte della sua biografia, quella da lavoratrice.
«Mi sono laureata in economia aziendale e finanza alla Bocconi e sono entrata in uno dei più grandi gruppi bancari italiani con la formula del “Graduate program”, cioè una formula pensata per alcuni laureati in particolare, in affiancamento a diverse figure interne già esperte».

Di cosa si occupava?
«Relazioni finanziarie tra le banche, ero coinvolta in un continuo scambio di progetti a livello internazionale».

Le piaceva?
«Molto, trattavo temi che conoscevo bene e sentivo molto miei, ma devo dire che i ritmi erano pazzeschi, entravo alle 8.30 e uscivo non prima delle 18.30-19».

E ha fatto carriera.
«Sì, ho fatto in tempo a ricevere due promozioni e a raggiungere il quarto livello, cioè il massimo possibile per un’impiegata, e mi fecero notare che non si tratta di un percorso che si realizzi di frequente per una under 30».

Lei, però, dice «ho fatto in tempo». Perché? Cosa è successo dopo?
«Nulla di male, anzi… Semplicemente, è successo che, tra i miei 28 e 32 anni, uno dopo l’altro, sono arrivati i miei tre figli».

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E questo ha cambiato le sue prospettive sul lavoro?
«L’impatto si è sentito da subito, già con il primo. Ho chiesto il part time, perché non potevo contare su alcun aiuto, le nostre famiglie vivono lontane da Milano».

E sul lavoro è cambiato qualcosa?
«Era inevitabile: dopo il periodo di maternità, che ho fatto per intero, quando sono rientrata facevo 20 ore settimanali, 4 al giorno, il mio portafoglio clienti si è sensibilmente ridotto. E le carriere seguono valutazioni basate sulle quantità. Però, va anche detto, che dopo cinque mesi ero di nuovo incinta e poi è arrivata la pandemia e siamo passati allo smart working».

Quindi in ufficio non l’hanno più vista?
«Lo smart working valeva per tutti, però è vero che poi è arrivato anche il mio terzo bambino. E a quel punto, nell’ottobre del 2022, a 33 anni, ho deciso di dimettermi».

Non c’era alternativa?
«Ripeto, non potevo contare su aiuti familiari e nel frattempo, in vista del terzo figlio, abbiamo dovuto cercare una casa più grande che, considerati i costi di Milano, non poteva che essere fuori città. Quindi anche lontano dalla sede di lavoro. In quella fase si poteva ancora fare smart working, ma credo che chiunque abbia in casa un bambino piccolo sappia cosa significhi occuparsi di lui e riuscire a concentrarsi sul lavoro, figuriamoci con tre».

Quindi da giovane bancaria in carriera è diventata casalinga a tempo pieno?
«Eh sì, fare la mamma è diventato il mio lavoro. Mi dico da sola che ho fatto bene, ma devo dire che mi manca molto il rapporto con i colleghi, non tanto il lavoro in sé ma avere relazioni con altri adulti».

Nessun rimpianto?
«Avere una famiglia numerosa era un desiderio, è stata una scelta, diciamo che con due bimbi avrei provato a mantenere almeno il part time, ma con tre avrei dovuto prendere una baby sitter praticamente a tempo pieno e girare direttamente a lei il mio mezzo stipendio».

Qual è stato l’atteggiamento dell’azienda?
«Sono rimasti spiazzati anche loro, hanno detto di voler provare a venirmi incontro per conciliare famiglia e lavoro, ma non c’erano grandi margini. Il tema, del resto, esiste, alla fine dipende sempre dalle scelte di noi donne, siamo noi a dover stabilire le nostre priorità. C’è chi non può fare a meno di lavorare o chi deve rinunciare ai figli, io ho avuto la fortuna di potermi appoggiare sullo stipendio di mio marito, ma da quel momento ho perso la mia indipendenza economica, mi sono messa totalmente nelle sue mani. E oggi va tutto bene, ma se un domani le cose dovessero cambiare? Credo che una donna debba poter contare anche sulla propria autonomia».

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Cosa servirebbe, secondo lei, per evitare questo corto circuito tra vita e lavoro delle donne?
«Servono politiche che sostengano davvero le madri e i padri, sottolineo anche i padri. I congedi pagati al 30 per cento non bastano. E poi orari veramente flessibili, non soltanto sulla carta ma anche negli atteggiamenti: perché se esci alle 17 dopo poco tempo vieni etichettata come quella lavora meno, se poi c’è anche un part time o dei permessi per la legge 104 allora scatta addirittura uno stigma».

Cercherà un nuovo lavoro quando i bambini saranno più grandi?
«Mio padre fa consulenze aziendali, penso che magari potrei progressivamente affiancarlo. Però anche crescere tre bambini è un lavoro, ci sono certi momenti in cui penso che se non fossero i miei figli sarebbe una cosa molto faticosa. E infatti, ora più che mai mi chiedo perché in questo paese il lavoro di cura, crescere dei figli e occuparsi della casa e della famiglia non è considerato una attività che meriti di essere remunerata».

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28 dicembre 2024 ( modifica il 28 dicembre 2024 | 12:58)

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