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Il Trattamento di fine rapporto (Tfr) è un istituto tipico dell’ordinamento lavoristico italiano ed è sempre stato considerato una forma di retribuzione differita anche se con funzione previdenziale. Il diritto a percepirlo, infatti, matura alla cessazione del rapporto di lavoro e garantisce al lavoratore una somma utile a sostenere le necessità derivanti dalla perdita dell’occupazione. È, pero, anche possibile ottenere delle anticipazioni in corso di rapporto sulla quota di Tfr maturato, per gli scopi prevista dalla legge o dal contratto collettivo e nei limiti da queste fonti stabiliti.
Nell’ottica di sviluppare la previdenza complementare, dal 2007 il legislatore ha favorito la destinazione del Tfr a finanziamento dei fondi pensione e, al contempo, ha previsto che le aziende debbano versare le quote di Tfr maturato dai propri dipendenti a decorrere dal 1° gennaio 2007 a un Fondo istituito presso l’Inps, il c.d. Fondo di Tesoreria (Fondo). Tale regola riguarda soltanto i datori di lavoro con almeno cinquanta dipendenti.
Più precisamente, i datori di lavoro sono tenuti a versare mensilmente al Fondo una somma pari al Tfr maturato dal lavoratore, secondo le regole proprie della contribuzione previdenziale. Al contempo essi erogano il Tfr al lavoratore anche per la quota parte di competenza del Fondo, conguagliando le somme erogate sui contributi dovuti al Fondo e riferiti al mese di erogazione della prestazione e, in caso di incapienza, sull’ammontare dei contributi dovuti complessivamente agli enti previdenziali nello stesso mese. Qualora la somma erogata dal datore non copra l’intera quota di Tfr di competenza del Fondo, provvede direttamente quest’ultimo.
Questo meccanismo, già di per sé abbastanza farraginoso, pone seri problemi di tutela del lavoratore nell’ipotesi in cui il datore di lavoro abbia omesso di versare la contribuzione dovuta al Fondo.
Assumendo la natura retributiva del Tfr, il lavoratore potrebbe comunque agire nei confronti del datore di lavoro per ottenere il dovuto e lo potrebbe fare nel termine di prescrizione di cinque anni decorrente dalla cessazione del rapporto, anche nell’ipotesi d’insolvenza del datore, in tal caso mediante insinuazione al passivo. Tuttavia, secondo il più recente orientamento della Cassazione, a seguito dell’istituzione del Fondo è cambiata la natura sia delle somme che il datore deve versare, sia della prestazione erogata, che non è più retributiva, ma previdenziale.
Tale differente connotazione cambia radicalmente i termini del problema in caso di omissione “contributiva” da parte del datore di lavoro. Il rapporto contributivo, infatti, vede quali sue parti soltanto il datore di lavoro e l’ente previdenziale, rispettivamente in qualità di debitore e creditore dei contributi, mente il lavoratore è terzo estraneo a questo rapporto. Inoltre, ciò che il Fondo eroga non è più il Tfr/retribuzione, ma una prestazione previdenziale, anche se di identico valore.
Ne discende che il lavoratore non può mai rivolgersi direttamente al datore di lavoro per ottenere la soddisfazione del suo diritto, poiché è solo l’Inps che può agire nei confronti del datore di lavoro, semmai, in caso di insolvenza, insinuandosi nel passivo. Il lavoratore potrà rivolgersi all’ente previdenziale, ma questi, in caso di omissione contributiva, sarà tenuto a erogare la prestazione analoga al Tfr nei limiti del quinquennio precedente la cessazione del rapporto di lavoro. Trattandosi di contribuzione, infatti, opera il principio di automaticità delle prestazioni (art. 2116 c.c.), che però incontra il vincolo del termine quinquennale di prescrizione del debito contributivo (art. 55, l. n. 1827 del 1935 e art. 3, co. 9, l. n. 335 del 1995).
Perciò, nei casi di rapporti di lavoro proseguiti per più di cinque anni e con omissioni contributive riferite a momenti precedenti il quinquennio, il Fondo erogherà soltanto la quota di Tfr corrispondente agli ultimi cinque anni, con un danno per il lavoratore pari al Tfr maturato in precedenza.
In questa ipotesi, il solo rimedio che resta al lavoratore è di agire nei confronti del datore di lavoro per ottenere il risarcimento dl danno subito (art. 2116, co. 2, c.c.). Oltre ai tempi e alla necessità di provare i fatti costitutivi del danno, tale azione risulta spesso poco efficace, soprattutto se il datore di lavoro è insolvente o non c’è più. Inoltre, trattandosi di risarcimento del danno e non di prestazione previdenziale è ben possibile addivenire ad un accordo transattivo.
Insomma, gli esiti dell’orientamento giurisprudenziale riducono la tutela del lavoratore rispetto al credito per Tfr e garantiscono piuttosto la tenuta finanziaria dell’ente previdenziale, che non si trova esposto a esborsi molto rilevanti, in caso di rapporti di lavoro di durata ultraquinquennale.
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