L’economia europea sembra incastrata in un lunghissimo Novecento, ancorata a vecchi modelli di produzione e vecchi standard ormai superati da tutte le grandi economie del mondo. Un continente forgiato sull’automotive, sulle ferrovie, sui macchinari di precisione, con poca propensione al rischio e un’alta propensione al risparmio. In questo si può leggere un paragone con l’immagine turistica che abbiamo dell’Italia: un bellissimo museo a cielo aperto, con un grande passato, decadente eppure affascinante, offerto a cinesi e americani che arrivano qui e sono disposti a spendere.
«Con Donald Trump pronto a riprendere posto alla Casa Bianca tra poche settimane e l’economia del continente in una fase di crisi sempre più grave, le fondamenta su cui poggia la prosperità dell’Europa non solo si rivelano pieno di crepe, ma rischiano addirittura di crollare», scrive Matthew Karnitschnig su Politico, in un lungo articolo sulle prospettive dell’economia europea e la sua competitività nello scenario globale.
L’economia europea si è dimostrata particolarmente flessibile e resistente per molti decenni dopo la Seconda Guerra Mondiale e ancor di più dopo Guerra Fredda, spiega Karnitschnig. Merito soprattutto dell’espansione verso est dell’Unione e della forte domanda di prodotti provenienti dall’Asia e dagli Stati Uniti. Ma i bei tempi sono finiti da un pezzo, quella che si intravede all’orizzonte per il prossimo anno potrebbe essere una tempesta perfetta.
«Le recessioni e le guerre commerciali possono andare e venire, ma ciò che rende questa congiuntura così pericolosa per la prosperità del continente ha a che fare con la più grande e scomoda verità di tutte: l’Unione europea è diventata un deserto di innovazione», si legge su Politico. Quello che sostiene Karnitschnig infatti è che nonostante l’Europa abbia una ricca storia di invenzioni strabilianti – tra cui innovazioni scientifiche che hanno regalato al mondo dall’automobile e il telefono, la radio e decine di prodotti farmaceutici indispensabili – oggi è diventata terribilmente decadente. È una rilettura dell’avvertimento lanciato alla fine della scorsa estate dall’ex presidente del Consiglio Mario Draghi nel suo rapporto sulla competitività. E c’è un dato che più di tutti inquadra questa situazione: oggi solo quattro delle prime cinquanta aziende tecnologiche al mondo sono europee.
Anche la presidente della Banca centrale europea Christine Lagarde aveva dato dei segnali d’allarme, lo scorso novembre: «Stiamo vivendo un periodo di rapido cambiamento tecnologico, guidato in particolare dai progressi nell’innovazione digitale e, a differenza del passato, l’Europa non è più in prima linea nel progresso». Intervenendo al Collège des Bernardins di Parigi, Lagarde aveva detto che il tanto decantato modello sociale europeo è a rischio, e la soluzione è cambiare rotta il prima possibile, «altrimenti non saremo in grado di generare la ricchezza di cui avremo bisogno per soddisfare le nostre crescenti esigenze di spesa, non saremo in grado di garantire la nostra sicurezza né combattere il cambiamento climatico e proteggere l’ambiente».
Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca è parte in causa. Il presidente eletto minaccia di imporre nuove tariffe su tutto, ogni volta che può ribadisce la sua richiesta agli alleati della Nato di investire di più per la difesa perché l’ombrello americano sta per chiudersi. E per le capitali europee, già in difficoltà nel contenere i crescenti deficit dovuti alla diminuzione delle entrate fiscali, significa navigare in acque sconosciute, con difficoltà finanziarie inedite che potrebbero innescare ulteriori sconvolgimenti politici e sociali.
Con Trump e la sua combriccola di Repubblicani populisti e sovranisti al controllo di entrambe le Camere del Congresso, l’Europa è particolarmente esposta ai capricci della politica commerciale statunitense. Se Trump dovesse davvero imporre dazi fino al venti percento sulle importazioni dall’Europa – che oggi valgono circa cinquecento miliardi di euro ogni anno – l’industria del continente subirebbe un duro colpo. Eppure per qualche ragione l’Europa sembra aver fatto motlo poco per prepararsi a questa eventualità. Matthew Karnitschnig per il suo articolo su Politico ha intervistato Clemens Fuest, presidente dell’Ifo Institute di Monaco, un importante think tank economico, che gli ha detto: «L’incapacità dei leader europei di trarre insegnamenti dall’ultima presidenza Trump si sta ritorcendo contro di noi».
Solo che il prossimo presidente americano, purtroppo, è uno dei problemi, ma non l’unico. «Sebbene l’Unione europea sia concentrata su Trump, non è lui il vero problema. Le sue persistenti minacce in realtà sollevano il velo sul modello economico traballante dell’Europa», si legge su Politico. Insomma, se l’Europa avesse una base economica più solida e fosse più competitiva a livello globale, Trump porterebbe meno incertezza.
Qualche anno fa si diceva che l’Unione europea avrebbe presto rappresentato un mercato ricco, innovativo, produttivo, in grado di competere con Stati Uniti e Cina su tutto. Invece l’Europa ha perso parecchio terreno rispetto a Washington dall’inizio del Ventunesimo secolo. Il divario nel Pil pro capite, ad esempio, è raddoppiato anche del trenta percento secondo alcune stime, dovuto principalmente alla minore crescita della produttività nell’Unione europea.
Secondo i calcoli fatti da Politico, un dipendente tedesco medio lavora circa il venti percento in meno – in termini di ore – rispetto ai suoi colleghi americani. Non solo, un’ulteriore causa del calo della produttività in Europa è l’incapacità del settore aziendale di innovare e innovarsi. Le aziende del settore tecnologico statunitensi, ad esempio, spendono più del doppio di quanto spendono le aziende tecnologiche europee in ricerca e sviluppo, secondo il Fondo monetario internazionale. Mentre le aziende statunitensi hanno visto un balzo del quaranta percento nella produttività dal 2005, la produttività europea è stagnante. Il divario è evidente anche nel mercato azionario: se le valutazioni del mercato statunitense sono più che triplicate dal 2005, quelle europee sono aumentate solo del sessanta per cento.
E insomma, Draghi ci aveva avvertito ma alle sue parole è seguito solo un accenno di dibattito, nemmeno troppo sviluppato. «Questo probabilmente è dovuto al fatto che i cittadini europei non stanno realmente soffrendo, almeno non ancora. Sebbene l’Unione europea rappresenti una quota sempre più ridotta del Pil mondiale, è ancora al primo posto per quanto riguarda la generosità dei sistemi di welfare dei suoi Stati membri», scrive Politico. Ma presto gli effetti della crisi si inizieranno a sentire e molti Paesi faticheranno a mantenere i loro standard di welfare.
Se le sorti economiche dell’Europa non cambieranno, molto presto i governi dovranno prendere decisioni difficili, un po’ come accadde alla Grecia nel 2010. Il risultato più probabile è un’ulteriore radicalizzazione della politica, una polarizzazione più ampia, con la corsa agli estremi dello spettro politico, a destra e a sinistra. Un fenomeno già piuttosto visibile in Francia, in Italia, in Germania. E il peggio deve ancora venire.
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