La narrazione: crisi o big bang

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di Giacomo Agnoletti

Ma ora stiamo vivendo un big bang della narrazione: un’espansione incredibilmente rapida dell’universo delle storie in ogni direzione. Viviamo nell’era dei social media, della saturazione delle serie televisive, dei canali di notizie ventiquattr’ore su ventiquattro e di un consumo complessivo dei media a livelli stellari.

Jonathan Gottschall, Il lato oscuro delle storie

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Nonostante l’hype riscosso oggigiorno dai modelli narrativi, viviamo un’epoca post-narrativa.

Byung-Chul Han, La crisi della narrazione

Negli ultimi anni sono comparsi una miriade di libri sulla narrazione, tanto che non è facile dar conto di tutte le uscite: fra gli autori più importanti, ricorderei Will Storr, Christian Salmon, Jonathan Gottschall e, più recentemente, Byung-Chul Han e David Colon.

Ciò che stupisce è che non si tratta lavori accademici, ma di saggi divulgativi rivolti alla generalità del pubblico: sembra infatti che lo storytelling, come lo chiamano gli anglofoni, stia godendo di un momento di fortuna a livello planetario. Anche la fiction cinematografica si è accorta dell’importanza della narrazione: basta ricordare il docufilm di Netflix The Social Dilemma (2020) o il film Don’t Look Up (2021). Perché quest’attenzione per un argomento prima riservato ai filosofi e agli studiosi di semiotica? La motivazione, a mio avviso, non sta soltanto nel successo dello storytelling come tecnica di marketing.

Cercherò allora di chiarire la ragione della necessità, sentita da un’audience globale, di esplorare le potenzialità della narrazione, e lo farò attraverso gli ultimi saggi di Gottschall e di Han. L’argomento è per entrambi lo stesso – narrazione e società contemporanea – e, fatto non irrilevante, entrambi hanno avuto un ottimo riscontro di pubblico. Ma se Gottschall dipinge un mondo dove “le persone consumano molte più storie, come mai prima d’ora”, Han ha invece intitolato il suo saggio La crisi della narrazione.

Insomma, viene da chiedersi, nella nostra società la pratica narrativa è in crescita oppure no? Dipende da quale significato si attribuisce alla parola “narrazione”. Se  ne parliamo in termini neuroscientifici ed evolutivi, è facile concordare che la narrazione è un elemento profondamente umano e dai connotati addirittura biologici. Le divergenze emergono quando accantoniamo le storie che gli uomini primitivi si raccontavano intorno al fuoco per concentrarci sull’attuale proliferare di micro-narrazioni, magari attraverso Telegram, Instagram & affini.

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L’analisi di Gottschall è ben articolata, soprattutto quando parla della psicologia sado-masochista dei fruitori di storie: noi lettori, o spettatori, ci comportiamo come masochisti quando tendiamo a identificarci coi buoni, quelli che soffrono o che subiscono un torto; ma dopo tale identificazione emerge, solitamente nella conclusione della storia, una tendenza sadica quando godiamo per la punizione inflitta all’antagonista. Qui risiede il “lato oscuro” della narrazione: dopo il contatto empatico col personaggio “buono”, si rafforza nella psiche dei fruitori una “sorta di cecità morale verso l’umanità di chi viene spinto nel ruolo del cattivo”.

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Gottschall è convincente e obiettivo quando chiarisce ai lettori le grandi potenzialità – e dunque anche i pericoli – della narrazione; lo è però molto di meno via via che il saggio si avvia verso la conclusione. L’autore statunitense, proponendo di avvalersi di un “metodo scientifico”, pretenderebbe di discriminare fra narrazioni “corrette” e narrazioni “complottiste”. Non occorre essere conoscitori delle diatribe teoriche sul disaccordo nelle scienze dure – e dunque scettici riguardo alla possibilità di uno sguardo neutro sulla realtà – per essere sfiorati dal sospetto che l’autore voglia screditare alcuni politici americani, che acquisirebbero proseliti con la diffusione di tali “cattive storie” su internet; e il sospetto diviene certezza quando Gottschall esplicita i riferimenti a Donald Trump, definito “Grosso Trombone”.

La tesi espressa nel Lato oscuro delle storie, dietro un pacato invito alla selezione dei contenuti, apre garbatamente a una possibile forma di sorveglianza sulla comunicazione, risultando quindi piuttosto radicale. Tuttavia la posizione dell’autore è forse più comprensibile se si tiene conto delle profonde divisioni interne alla società americana (recentemente portate sullo schermo da Civil War di Alex Garland).

Possiamo allora tentare di rispondere alla domanda posta in apertura: perché la narrazione, da questione accademica, è divenuta un tema “caldo” ben presente sugli scaffali delle librerie e trattato diffusamente su ogni tipo di media?

La risposta si trova soprattutto nei testi di autori come David Colon e Jonathan Gottschall, che si rivolgono a un pubblico di orientamento progressista in politica, liberista in economia e generalmente sospettoso riguardo a ogni tipo di contestazione nei riguardi del sistema democratico occidentale, ritenuto perfettibile ma superiore  a ogni altra forma di “autocrazia”. Il lettore-tipo di questi saggi è preoccupato dalla facilità con cui internet permette alle “cattive storie” (definite fake-news, o complotti) di circolare, e soprattutto dalla possibilità che questo big bang narrativo possa diventare la principale forma di comunicazione politica. “[N]on credo sia una coincidenza”, scrive Gottschall, “che l’ascesa dei social media corrisponda perfettamente a un big bang della polarizzazione e dell’instabilità sociale, non solo in America ma in gran parte del mondo”. L’analisi di Gottschall è dunque efficace nello spiegare a un lettore – che presumibilmente condivide già in partenza l’orientamento politico dell’autore – quali siano le potenzialità e soprattutto i rischi connessi all’aumento della circolazione delle “storie”, cioè delle possibili visioni del mondo, attraverso i social media; e per questo ha successo, trova un pubblico ampio.

Ma, implicazioni ideologiche a parte, il vero limite del saggio è forse l’incapacità di guardare ai fatti sociali come movimenti che si originano dal basso. Già dall’introduzione, in cui le storie vengono definite “il mezzo migliore che noi umani abbiamo inventato per influenzarci a vicenda, per dominarci l’un l’altro (…)”, si palesa una rappresentazione passiva dell’audience, il cui comportamento è considerato facilmente condizionabile da ogni genere di narrazione. Perché, invece, non ribaltare la visione e considerare il proliferare di siti complottisti su internet non come la causa, ma come l’effetto dello scontento e della delusione di una larga fetta del pubblico? Perché non considerare con il dovuto rispetto le scelte dei consumatori, che a milioni si rivolgono alle teorie cospirative più varie, anziché svalutare tali preferenze, attribuendole a un uso “malevolo” della narrazione?

Sembra insomma che sia davvero difficile smettere, come scriveva Micheal De Certeau negli anni Ottanta, di “considerare la gente idiota”. Eppure, solo attribuendo dignità alle scelte dell’uomo comune, che “in ogni epoca previene i testi” (ancora con De Certeau), sarà possibile leggere un fatto sociale. Anche nel caso del saggio di Gottschall, mi sembra più significativo collegare il successo della sua opera alle preoccupazioni per la libertà di espressione permessa da internet – e non certo al lavaggio del cervello operato da chissà quale dei media di sistema.

2.

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Han si rivolge invece a un pubblico ben diverso, decisamente critico nei confronti del capitalismo neoliberista anche se per molti aspetti convinto della sua inevitabilità e, forse per questo, piuttosto scettico riguardo a ogni possibile forma di resistenza. Han non nega che i modelli narrativi siano oggi dilaganti: ne è un esempio la pubblicità, che ha ormai definitivamente abbandonato le vecchie strategie realiste (illustrare, dimostrare) per sposare una ben più profittevole strategia culturale-emotiva basata sul “raccontare una storia sul prodotto”. Questo lo storytelling che dilaga ovunque. Ma tale forma di narrazione, in quanto emanazione del sistema economico, riduce tutto al consumo. Lo storytelling non apre verso una realtà altra, non spaesa, non contraddice, non spaventa. Al massimo, incuriosisce: invoglia a provare un’altra esperienza, un altro gadget, un’altra vacanza. Han dipinge l’uomo di oggi come prigioniero in un mondo disincantato: e il dis-incanto non è prodotto solo dal crollo delle ideologie forti, ma dalla logica onnipresente e soffocante della modernità borghese, scientifica, razionale. La realtà viene compresa attraverso relazioni causali che spiegano il mondo, ma lo privano per sempre del suo incanto: “le cose esistono, ma tacciono. L’incanto è fuggito via dalle cose”.

Nel mondo disincantato è possibile l’informazione, ma non la narrazione. Assistiamo allora a una proliferazione di “narrazioni deboli” – nei notiziari televisivi, nei social network e nelle strategie di marketing; ma queste micro-narrazioni brevi, veloci, contingenti, non fanno che confermare lo stato di crisi di un fenomeno profondamente umano: l’arte di narrare. Citando Benjamin, Han spiega come la prassi narrativa richieda calma, capacità di ascoltare e di appropriarsi con lentezza dell’esperienza del narratore (gnarus, esperto): lasciandosi avvolgere, come in un “caldo panno grigio”, dalla “distensione spirituale” indotta dalla noia, invece temutissima dagli odierni professionisti dell’informazione.

Insomma, mentre la prassi narrativa autentica è entrata in una crisi irreversibile, si espandono tutta una serie di micro-narrazioni intrinsecamente anti-narrative: notiziari velocissimi che ricercano un effetto sorpresa, storytelling pubblicitario, fiction incentrate sulla sfera privata, spiegazioni del mondo semplificate a sfondo complottista. Questa la dilagante prassi anti-narrativa, basata su un accumulo di informazioni e su un’oscena (inevitabile il riferimento a Baudrillard) esposizione di tutto. Fino a raggiungere, con le storie di Instagram o di TikTok, “il grado zero della prassi narrativa”. Informazione e poi ancora informazione, secondo un processo di addizione e non di selezione. Ma l’accumulo, l’archiviazione e l’esposizione sono disumani: solo il computer espone e ricorda tutto. Il ricordo umano invece è parziale, selettivo, lacunoso, incerto. A volte sfocato e persino mendace. L’eccesso di informazioni, ammonisce allora Han, ci sta allontanando dalla nostra umanità: ci ha già disumanizzati se, come affermano i neuroscienziati, l’essere umano è un animal narrans, e proprio la prassi narrativa è alla base della nostra struttura biologica.

Al di là della prosa scarna ma suggestiva di Han, che colpisce inesorabilmente il suo pubblico (nel quale confesso di riconoscermi), anche nel suo saggio si percepisce il disinteresse per l’analisi in senso attivo delle scelte dell’audience. Han non riesce a scorgere – o non è interessato a farlo – nella vita quotidiana una qualunque forma di resistenza da parte dei consumatori di storie: che è come dire un barlume di speranza. Perché, se abbiamo appurato che la prassi narrativa, che ci ha plasmati e definiti come esseri umani, è ormai entrata in crisi con la crescita inarrestabile di media che vanno verso lo sviluppo di contenuti on demand, dunque individuali, singolari e spoliticizzati, come potremo costruire l’orizzonte narrativo di un “noi” che possa andare oltre la miriade di “io” che emergono dalla micro-narrazioni dei nostri dispositivi smart? La narrazione, dopo averci costruito biologicamente come esseri umani, dopo averci accompagnato per millenni, sta ora perdendo la propria funzione sociale, comunitaria?

Han è un efficace interprete della tendenza depressiva del nostro tempo, che ha indagato in molte delle sue opere (ad es., in Capitalism and the Death Drive). Credo che alla fine il tema di fondo, presente anche in questo La crisi della narrazione, riguardi la pulsione all’auto-sfruttamento indotta dalla “società della performance”: siamo ben felici di sfruttare noi stessi, fino letteralmente a morirne, per tenere alta la bandiera di un sistema che non ha nulla da offrirci a parte un benessere illusorio. Eppure, non riusciamo a sottrarci a questo tipo di logica, che ci impone di sfruttare noi stessi, e il pianeta in cui viviamo, fino all’esaurimento. E l’allontanamento dalla lentezza tipica della prassi narrativa, alla quale si è sostituita un’asettica proliferazione informativa, è certo una triste conferma della tendenza alla disumanizzazione e, in fondo, all’auto-annientamento.

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Sia Gottschall che Han rappresentano bene le preoccupazioni, tipiche del nostro tempo, relative al proliferare informativo indotto dalle nuove tecnologie. La posizione, anche politica, di Gottschall è molto chiara. La sua preoccupazione riguarda il trumpismo, la svalutazione della cultura istituzionale, e sottotraccia la possibilità di una guerra civile nel cuore del mondo democratico. Ma l’autore statunitense, per condurre la sua analisi, svaluta completamente la cultura pop, che viene dal basso: se la gente è totalmente influenzabile, allora la cultura di massa, in quanto imposta, non esiste; quindi, perché perdere del tempo a studiarla? Prima erano i media conglomerate a orientare l’audience, adesso i complottisti. Questa, in estrema sintesi, l’impostazione di metodo seguita da Gottschall, come da moltissimi altri: e infatti da troppi anni si è quasi del tutto persa l’abitudine a fare critica sociologica, cioè a interpretare i fatti sociali attraverso l’analisi di un prodotto culturale di successo.

Han tende invece a evidenziare lo stato di crisi della società contemporanea. Con chiarezza disarmante, comunica al lettore che la prassi narrativa è finita: ora ci sono solo informazione e storytelling pubblicitario. Al massimo qualche sprazzo di fiction, comunque centrata sulla sfera privata, sui diritti del singolo o di un gruppo, purché non si parli dell’intera società: la coesione sociale è roba da museo,  la rivoluzione un ricordo, forse un sogno. La progettualità è ridicola, perché impossibile.

Non si può certo dargli torto. La prassi narrativa è morta, o quasi: il percorso anti-narrativo, che Benjamin faceva risalire alla nascita del romanzo, si sta compiendo coi dispositivi smart. Niente più narrazione (lentezza, noia, ascolto); solo informazione (velocità, sorpresa, piacere, in un loop infinito). Ma se non c’è più l’incanto, se  “le cose esistono, ma tacciono”, allora possiamo dare l’addio non solo alla narrativa, ma all’arte.

Da una parte una malcelata angoscia, tanto potente da sfociare in un invito alla limitazione della libertà di espressione; dall’altra una rassegnata, anche se suggestiva, constatazione del tramonto di ogni valore autenticamente umano: sia Gottschall che Han, pur con metodi e conclusioni diverse, alimentano entrambi un atteggiamento “apocalittico” riguardo alla cultura contemporanea.

Le varie teorie complottiste, che forniscono una spiegazione del mondo comprensibile e semplificata, così come i tentativi di difesa dell’establishment che si nascondono dietro il fact-checking, sono i sintomi più evidenti della nostra miseria culturale e immaginativa e lo specchio delle nostre divisioni. Ma la nostra non è una società frammentata dai complotti diffusi su internet, bensì dalla sua stessa mancanza di speranza e di progettualità. È la condizione di “naturalità” del capitalismo liberale a condannare il sistema a un’eterna immobilità, ma con la certezza di un pessimo finale – ambientale, nucleare, sociale – che alcuni sperano di accelerare in vista di un’implosione liberatoria (Nick Land).

Oltre mezzo secolo ci separa dagli anni Settanta, dal periodo in cui scrivere di critica sociologica, soprattutto in termini di critica dell’ideologia, era normale. Ma i tempi sono mutati: oggi le tendenze “apocalittiche”, o peggio, nei confronti della cultura di massa appaiono certo più ragionevoli in un Occidente dove ormai una parte ampia della popolazione sceglie di non votare. Se la popolazione è tanto sfiduciata e depressa da allontanarsi dalla politica, la critica dell’ideologia appare inutile. Per non parlare della quantità, davvero impensabile pochi decenni fa, dei prodotti culturali – e del loro parallelo scadimento qualitativo, almeno nei termini di cura stilistica. Tutto porterebbe ad attribuire all’arte, ancor più se “di massa”, la funzione di mero intrattenimento del pubblico.

Eppure, oggi si potrebbe ancora fare sociologia della cultura, rifiutando quindi l’equazione “narrazione=intrattenimento”; ma opponendosi anche a una ricerca che si concentri sull’equivalenza “narrazione=dominio”. Perché, se è chiaro fin dai tempi di Platone che chi racconta una storia governa il mondo, un tipo di critica che si concentri sugli aspetti connessi al dominio finisce solitamente per rivelarsi un tentativo di influenzare il lettore, divenendo essa stessa ideologica.

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Per chiarire con un esempio, mi sembra che l’interesse per la narrazione come strumento di dominio in un autore come Gottschall serva essenzialmente a proporre una propria “visione del mondo” contrapposta a quella diffusa dalle “cattive storie”. Anche lo “smascheramento” dell’ideologia borghese, tanto in voga nella critica sociologica degli anni Settanta (penso in particolare a Ferruccio Rossi-Landi), funzionava un po’ alla stessa maniera: il riconoscimento, all’interno dei testi, del carattere ideologico del linguaggio era funzionale alla promozione di un diverso tipo di ideologia (ovviamente anti-borghese). Perché invece non cercare di comprendere la funzione sociale di un’opera d’arte, non indagare il successo di un prodotto culturale, considerando le scelte dell’audience come attive? Questo significherebbe accettare la complessità delle storie che emergono dal nostro presente, per individuare una tendenza, un senso, nel modo di usare prodotti culturali da parte della gente comune.

L’equazione allora diverrebbe: “narrazione = bisogno”.

Un bisogno da indagare senza cercare di distinguere fra verità e complotto – chi decide dove finisce il dissenso “legittimo” e dove comincia il complotto “paranoico”? – ma con la speranza di evidenziare la nostra voglia di essere ancora uomini e donne, pur nel proliferare di dati e informazioni digitali. Per scoprire, magari, che l’arte non è ancora morta.



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