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Adista Notizie
n° 3 del 25/01/2025
42112 CARACAS-ADISTA. Se l’obiettivo era restare al potere a ogni costo, Nicolás Maduro ci è perfettamente riuscito. Che ci sia voluta quella che lo scienziato politico José Natanson ha definito come la «frode elettorale più disorganizzata della storia latinoamericana» poco importa: giurando su un esemplare della Costituzione di Hugo Chávez, appena calpestata con la mancata pubblicazione dei risultati elettorali, Maduro – forte della «perfetta unione civico-militare-poliziesca» che lo sostiene – ha annunciato un periodo di «pace, prosperità, uguaglianza e nuova democrazia», ribadendo «lealtà assoluta» all’eredità del «comandante eterno». La retorica di sinistra, del resto, non ha mai fatto difetto al governo bolivariano, i cui proclami antifascisti e anti-imperialisti spiegano almeno in parte il consenso di cui ancora gode tra tanti movimenti popolari, latinoamericani e non solo, molti dei quali sembrano disposti a sorvolare sull’estrema opacità del processo elettorale pur di scongiurare il pericolo di un governo di estrema destra.
A sinistra, però, c’è anche chi, al contrario, non è disposto a giustificare il ricorso a mezzi non democratici (sia pure quelli di una lacunosa democrazia rappresentativa), denunciando il rischio che, utilizzando le stesse armi della destra, si finisca proprio per superare la linea di demarcazione tra questa e la sinistra. «È chiaro che noi rivoluzionari puntiamo a un ampliamento della democrazia diretta, ma in nessun caso possiamo permettere che vengano cancellate le conquiste democratiche ottenute dalla classe lavoratrice e dal popolo», evidenzia il sociologo venezuelano Luís Bonilla-Molina. Senza con ciò negare la «tragedia» che comporterebbe l’ascesa al potere dell’estrema destra rappresentata da Edmundo González, e dietro di lui, da María Corina Machado.
Un’indubbia tragedia: un governo di destra sarebbe stato non molto diverso da quello di Javier Milei in Argentina – dall’eliminazione dei programmi sociali fino alla vendita delle imprese strategiche come quella del petrolio e del gas –, malgrado il nome del programma di Machado, “Tierra de gracia”, promettesse tutt’altro. Un programma scritto, incredibilmente, solo in inglese e presentato già nel 2023 al governo Usa. È stato sempre questo, in effetti, il principale punto a favore di Maduro: il totale discredito di una destra che aveva gridato ai brogli contro ogni evidenza dall’avvento del chavismo e che, pur di rovesciarlo, era ricorsa a ogni mezzo possibile, dal golpe alle violente guarimbas che avevano insanguinato il Paese nel 2014 e nel 2017, dalla farsa del governo dell’autoproclamato Juan Guaidó alle mai perdonate invocazioni di un intervento militare e alla difesa delle sanzioni che hanno contribuito a lungo a mettere in ginocchio il Paese. Il tutto in mezzo ad annunci roboanti mai mantenuti, l’ultimo dei quali relativo a un imminente rientro nel Paese da parte di González, la cui fuga non proprio onorevole in Spagna, motivata quanto si vuole dalla paura di finire in galera, era apparsa sotto ogni punto di vista una resa, tanto più che, per ottenere il salvacondotto dal governo, l’ex candidato presidenziale aveva dovuto riconoscere di fatto la vittoria di Maduro. «Mi ha chiesto clemenza», aveva infierito non a caso il presidente, definendolo un «pusillanime».
Madurismo vs chavismo
C’è vita, tuttavia, anche al di fuori del “madurismo” e della Piattaforma unitaria della destra radicale, come mostra un gruppo di organizzazioni politiche, sindacali e sociali – raccolte nel Frente Democrático Popular – riconducibili a quell’opposizione di sinistra che aveva provato, invano, a presentare propri candidati alle elezioni del 28 luglio. E che è anch’essa vittima della repressione governativa, la quale, peraltro, non ha risparmiato neppure il cooperante italiano Alberto Trentini, fermato il 15 novembre in un posto di blocco e rinchiuso in una struttura di detenzione pur in assenza di qualsiasi accusa formale di reato.
Dopo l’arresto dell’ex candidato presidenziale (appoggiato dal Partito comunista) Enrique Márquez, leader del partito Centrados, e quello del difensore dei diritti umani Carlos Correa, poi rilasciato – entrambi accusati di coinvolgimento in un piano golpista –, e dopo le pesanti intimidazioni nei confronti dell’ex sindaco di Caracas Juan Barreto, al tempo fedelissimo di Chávez e oggi militante di Centrados, nel mirino delle autorità è finita anche l’avvocata costituzionalista María Alejandra Díaz, anch’essa accusata di cospirare insieme a Márquez. Era stata lei, per conto del Frente Democrático Popular, a presentare al Tribunale supremo di giustizia (Tsj), nel più stretto rispetto della Costituzione, un ricorso contro la mancata pubblicazione dei risultati delle elezioni da parte del Consiglio nazionale elettorale. E, per tutta risposta, il Tsj non solo aveva giudicato inammissibile il ricorso, ma aveva ordinato la sua sospensione dall’esercizio della professione, infliggendole anche una multa salata.
Ed è proprio da chi, in passato, ha sostenuto con convinzione la rivoluzione chavista, che piovono sul governo le denunce sulla costante erosione dei diritti in atto nel Paese. Come per esempio quelle di Thaís Rodríguez Gómez, autrice di una serie documentale sul «Comandante Chávez», e oggi «indignata» che in Venezuela vi siano «persone che lavorano 12 ore al giorno con contratti che non offrono alcun beneficio legale» e il cui salario «permette a fatica di sopravvivere». Un salario minimo tra i più bassi al mondo, fermo ai 130 bolívares del 2022, che all’epoca valevano 30 dollari ma oggi appena 2,50 al mese, e chiaramente non compensato dai vari “bonus di guerra”, malgrado – dopo la spaventosa crisi economica sofferta negli ultimi anni, sicuramente anche grazie all’embargo deciso dagli Usa – la ripresa sia stata consistente e gli scaffali dei supermercati siano tornati a riempirsi. Il popolo venezuelano, denuncia la giornalista su Facebook, «affronta oggi molti nemici: la classe politica dominante (sia al governo che all’opposizione, due facce della stessa medaglia), gli imperialisti statunitensi e gli imprenditori che pagano salari da schiavi, tutti interessati a lucrare sul nostro lavoro e sulle ricchezze del nostro Paese».
E altrettanto duri sono il sociologo venezuelano Luís Bonilla-Molina e la dirigente brasiliana del Psol Ana Cristina Carvalhaes, che, in un articolo pubblicato sulla rivista di sinistra Sin Permiso, accusano Maduro di aver non solo incoraggiato «l’arricchimento di un nuovo settore imprenditoriale nel Paese», ma anche calpestato i diritti dei lavoratori, vietando gli scioperi e mandando «in prigione i dirigenti sindacali impegnati a lottare per un aumento di stipendio e l’assicurazione sanitaria». Il governo, concludono, «applica le ricette economiche della destra, solo con una retorica di sinistra».
Significativo dell’aperta sconfessione del programma rivoluzionario bolivariano, per il suo valore simbolico, il caso della restituzione ai legittimi proprietari di beni precedentemente espropriati da Hugo Chávez, come il centro commerciale Sambil di La Candelaria, a Caracas, tornato nelle mani dell’imprenditore Alfredo Cohen. Qualcosa di inimmaginabile ai tempi del «comandante eterno»: «Mi devono cacciare da Miraflores perché ci sia un centro commerciale a La Candelaria», diceva Chávez nel 2008. Aggiungendo: «Come possiamo costruire il socialismo cedendo spazi vitali del popolo a questo modello smisuratamente consumista?».
*Foto presa da Wikimedia Commons, immagine originale e licenza
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