La “prima lezione sulla giustizia penale” di Giostra è una lezione sul diritto

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Occorre avere una encomiabile forza morale ed una misteriosa virtù per coltivare nei tempi correnti l’arte del giurista. Per credere che, nell’epoca della disintermediazione e del farsi giustizia da sé, regole, procedure e principi possano essere ancora il viatico del buon cittadino. Che quello processuale possa essere l’orizzonte condiviso e rassicurante della polis posta davanti al dramma del delitto.

Lo fa Glauco Giostra, processual-penalista emerito, da sempre attento ai nessi che corrono fra le norme del rito e l’evoluzione della modernità, il quale pubblica per Laterza una seconda edizione della sua “Prima lezione sulla giustizia penale”. Una pretesa, quella di proporre anche al grande pubblico gli strumenti del processo penale, apparentemente velleitaria, in un contesto nel quale sembra essersi dissolta quell’alleanza necessaria fra legge e pulsione che costituisce la base stipulativa della nostra stessa convivenza civile.

Quell’ “animale privo di istinto” e conseguentemente “aperto al mondo”, che è l’essere umano – come lo definisce Arnold Gehlen – è mosso, per sopravvivere, da una brama di tessere regole ed istituti. Diviene un facitore di norme, che sa di poter violare tanto quanto di voler osservare. Ogni legge sa di nascere al tempo stesso dalle aspirazioni della ragione e dal fondo oscuro di una pulsione: la sua forza si basa su quell’equilibrio precario. Nel volgere di una generazione, la fiducia nelle norme può declinare nel suo contrario. E mai come ora la crisi della giustizia penale e delle norme che la regolano fa sentire i suoi effetti sulla tenuta delle nostre democrazie.

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La disintermediazione populista ha spazzato via, non solo gli strumenti tecnici del sapere giudiziario – come inutili intralci al sapere istintivo del popolo e al suo sentimento di giustizia – ma anche il valore del processo. Le regole della conoscenza del giudice sono oramai decadute a vezzi illuministici e sono intese come inauditi e insopportabili vantaggi garantisitici offerti ai malandrini.

È dunque questo lo straordinario valore politico, oltre che culturale, del testo, quello di saper recuperare la necessità controintuitiva delle regole ai fini di giustizia, ribaltando l’idea che ciò che è intuitivo è corretto. Fondamentali, dunque, le pagine sul valore epistemologico del contraddittorio, che nonostante i suoi limiti e i suoi possibili sviamenti resta antidoto ineguagliabile all’arbitrio dell’inquisitorio. E di particolare interesse le riflessioni su quella “scelta epistemologicamente rivoluzionaria” che segnò il passaggio, con il nuovo codice del 1988, al modello accusatorio nella formazione della prova e sulle inevitabili resistenze, interne al sintema, che condussero alla costituzionalizzazione di quel modello con la riforma dell’art. 111 Cost. Perno fondamentale di ogni futura riforma.

Nel lungo percorso che va dalle indagini preliminari, alle impugnazioni e alla formazione del giudicato, sono da approfondire con interesse, per la loro connessione ai più controversi profili dell’attualità, le pagine sulla “giustizia nello specchio deformante dei media”, che “non si limita a riflettere le vicende processuali raccontate” ma troppo spesso ne rimanda una “immagine distorta”. “L’attenzione dei media – ricorda l’Autore – puntata soltanto sui primi atti del procedimento finisce con il caricarli di un significato probatorio ‘improprio’ e di un’attendibilità che non dovrebbero avere”.

Non solo questo meccanismo compromette la cosiddetta verginità cognitiva del futuro giudice, ma condiziona anche, di fatto, gli equilibri complessivi della giurisdizione. Si tratta di temi il cui sviluppo lascia inevitabilmente aperte le domande su come sia possibile che “la giustizia penale sia assistita sì dalla pubblicità, ma anche protetta dai suoi effetti perversi e distorsivi” (“divieto di pubblicazione e diritto di cronaca”) e come si possa infine “riattivare”, nell’ambito del processo penale, quel “moto circolare che esprime la vitalità democratica e civile di un Paese”.

Ne esce un quadro inevitabilmente critico sullo stato attuale del nostro processo penale, ma anche una riflessione che ci riconduce alla premessa circa la necessità di tornare a credere nelle regole del giudizio e nella forza che spontaneamente le porterà a riguadagnare il terreno perduto, perché come ricorda Glauco Giostra, il processo penale, con le sue regole apparentemente lontane e oscure, è l’unico strumento che abbiamo per salvaguardare le nostre vite da “quell’intollerabile realtà di soprusi, di discriminazioni, di repressione del dissenso, di emarginazione di minoranze, di imposizione di dommi politici o religiosi, di repressione rivoluzionaria che, troppo spesso, in tutte le epoche della storia, e a tutte le latitudini della geografia, prende abusivamente il nome di giustizia”.



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