Lo scandalo bipartisan per un ergastolo negato alla giustizia di piazza

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Le scandalizzate reazioni bipartisan alla sentenza della Corte di Assise di Modena, che ha condannato l’assassino della moglie e della di lei figlia “solo” a trent’anni di reclusione, è l’ennesima conferma che nel baraccone politico-mediatico-giudiziario i processi penali assolvono alla stessa funzione liturgica dei sacrifici umani, con la differenza che non servono a propiziare il favore degli dei, ma quello della ggente

La pena per essere accettabile e socialmente legittima non deve essere commisurata alla responsabilità del reo e alle circostanze del fatto, ma corrispondere alle aspettative del pubblico e alle contingenze del suo insindacabile gusto. Perciò, essendosi ormai tutti, a destra come a sinistra, fatti la bocca ai sapori forti, cioè all’idea che il massimo della giustizia coincida con il massimo della pena per tutti i reati più gravi e riprovevoli, che un processo per omicidio – a maggior ragione se si tratta di un femminicidio – si concluda con qualcosa di diverso dall’ergastolo è da considerarsi come un oltraggio alla vittima e al popolo tutto, in nome del quale la sentenza viene pronunciata. 

In questo copione, che si ripete uguale a sé stesso in tutti i processi di cassetta – massimamente se soddisfano il voyeurismo e la morbosità perbenistica per i reati a sfondo sessuale – ai rappresentanti del popolo tocca insorgere a tutela della vittima e dei propri rappresentati, proprio per vendicarne l’oltraggio. 

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Ecco dunque una breve e non esauriente antologia di reazioni alla sentenza della Corte di Assise di Modena dell’8 gennaio 2025, di cui sono state rese note due giorni fa le motivazioni. «Allucinante, una mostruosità» (Matteo Salvini, Lega). «Un vulnus sulle fondamenta che reggono il nostro ordinamento» (Eugenia Roccella, Fratelli d’Italia). «Messaggi culturali devastanti» (Laura Ravetto, Lega). «Ci portano indietro di decenni» (Maria Elena Boschi, Italia viva). «Un provvedimento da Manuale del Patriarcato» (Valeria Valente, Partito democratico). «Inaccettabile vittimizzazione secondaria» (Marilena Grassadonia, Alleanza Verdi Sinistra). 

L’insurrezione della politica indignata è scattata pavlovinamente a comando, di fronte alle prime sintesi giornalistiche, anch’esse convenientemente allarmate e attonite, sulla sentenza e le sue motivazioni. Nessuno degli istantanei commentatori aveva né letto, né meditato le duecentotredici pagine in commento, perché sapeva di non averne bisogno. Non rilevano nella vicenda davvero le ragioni per cui la Corte ha condannato l’assassino “solo” a trent’anni di reclusione, concedendo attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti contestate (avere agito contro la coniuge, in presenza di un minore e in un contesto di maltrattamenti in famiglia) ed escludendo la premeditazione del delitto. Rileva solo che i giudici non si dovevano permettere di fare quella sentenza.

Le duecentotredici pagine scritte dalla presidente del collegio – una giudice a cui sicuramente sarà rimproverato il delitto di tradimento di genere – andrebbero lette con lo spirito di verità con cui si leggono le tragedie greche, come meditazione dell’immanenza del male nelle relazioni e nei comportamenti umani, non liquidate come un brogliaccio da cui estrarre l’imputazione e la condanna dei giudici troppo indulgenti. 

Se qualcuno avesse letto davvero il resoconto dell’interrogatorio del figlio dell’omicida, che pure aveva tentato di difendere la madre dalla furia del padre, capirebbe in che senso per i giudici il clima familiare e le violenze morali e materiali che i coniugi – l’assassino e la moglie, con il sostegno della figlia – reciprocamente si infliggevano abbiano innescato il raptus omicida e giustificato, insieme alla immediata confessione del delitto, al contegno processuale e alla sostanziale incensuratezza dell’imputato, la concessione delle attenuanti generiche, pur con l’esclusione di quella della provocazione da parte delle vittime. 

I giudici, con ampia motivazione, giungono alla conclusione che l’imminente sentenza di separazione, e il rischio concreto di perdere sia l’abitazione (pagata dal marito e intestata alla moglie), sia l’affidamento del figlio minore, abbia innescato nell’uomo il black out omicida, maturato all’interno di una irrimediabile faida familiare. “La comprensibilità umana dei motivi che hanno spinto l’autore a commettere il fatto reato” – passaggio delle motivazioni a cui i giudici sono stati impiccati sulla pubblica piazza mediatica – non è stata invocata per giustificare il delitto o minimizzarne la gravità, ma semplicemente per irrogare una pena più lieve, ma pur sempre di trent’anni, per il duplice omicidio.

C’è un passaggio vanamente, ma meritoriamente didascalico della sentenza in cui i giudici spiegano che le attenuanti generiche «costituiscono il “luogo privilegiato” in cui trovano spazio considerazioni di equità a favore del reo, in ragione delle circostanze individuali nelle quali si è trovato ad agire all’epoca dei fatti. E ciò, segnatamente, per i delitti di competenza della Corte di Assise, la cui esistenza trova la ragion d’essere della composizione mista del giudicante, sia nella necessità che le pene più gravi siano irrogate in nome del popolo italiano da una giuria che lo contempli nella sua effettiva costituzione e non solo simbolicamente; sia nella capacità del cittadino comune (che si esprime al di là dei tecnicismi propri del giudice togato e oltre gli stessi) di comprendere, di giudicare e infine di calibrare la sanzione utilizzando la sensibilità, il senso logico ed etico, la quotidiana esperienza, l’assennatezza del quisque de populo, ed, in ultima analisi, l’onestà e il comune sentire del buon padre di famiglia di latina memoria».

Ma il codice penale ha in mente appunto il “cittadino comune” e il “quisque de populo”, non il pubblico dello spettacolo giudiziario e l’indignato collettivo, che esige, come minimo, di buttare la chiave della cella di qualunque assassino.

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