Corte di Assise di Modena, 8 gennaio 2025 (ud. 9 ottobre 2024), n. 3
Presidente ed Estensore dott.ssa Ester Russo
Segnaliamo ai lettori, in considerazione dell’interesse mediatico della vicenda, la sentenza con cui la Corte di Assise di Modena ha condannato a 30 anni di reclusione Salvatore Montefusco per aver cagionato la morte della moglie e della di lei figlia.
Dopo aver riepilogato i fatti – così come accertati all’esito dell’istruttoria – la Corte di Assise ha concluso evidenziando come, alla luce delle testimonianze del figlio, «la relazione tra il padre e la madre, anche in occasione dei litigi, non fosse mai stata caratterizzata dal predominio e dalla prevaricazione dell’uomo sulla donna, dal momento che i litigi nascevano e si realizzavano a seguito di continue condotte di disturbo e di aggressività che partivano dalle due donne fino a divenire reciproche e conseguenziali».
Tale clima, «fatto di odio reciproco, dispetti sempre più disumani ed insopportabili e continua tensione – emerge dalla testimonianza del ragazzo come un bagno di esasperata conflittualità e ha senza ombra di dubbio costituito il fertile terreno da cui è nata e si è sviluppata la tragedia finale»; in altri termini, «la convivenza in casa Montefusco era caratterizzata dalla integrazione reciproca delle condotte vessatorie, determinanti in capo a tutti i soggetti conviventi uno stato di profondissimo malessere, di sofferenza, privazioni e umiliazioni incompatibili con le ordinarie condizioni di vita di un normale nucleo familiare».
Tali possono considerarsi – continua la sentenza – «tutti quegli abituali dispetti che le due donne infliggevano al Montefusco impedendogli di dormire nel proprio letto; di utilizzare i bagni della propria abitazione; di prendere un caffè; di muoversi liberamente nella propria casa le cui camere venivano chiuse a chiave; e persino di orinare nel water; di essere costantemente ripreso con le videocamere dei telefoni cellulare; di essere usualmente minacciato e invitato a lasciare la propria abitazione; di essere aggredito anche fisicamente riportandone le lesioni refertate come in atti, di essere infine sottoposto a continue e reiterate denunce ed all’intervento ormai abituale dei CC presso l’abitazione».
La Corte prosegue osservando come «il quadro che emerge dalla situazione – che vede porre in essere maltrattamenti reciproci tra conviventi – appaia, dunque, radicalmente diverso da quello in cui, attraverso il maltrattamento unilaterale si determina in capo alla persona offesa un ineludibile stato di assoluta sudditanza fisica e psicologica»: come hanno riferito i testimoni, «in casa non si assisteva alla prevaricazione del padre nei confronti della madre e della sorella bensì ad una situazione di ostilità reciproca, ad una “faida familiare” come dallo stesso definita, in cui tutte le parti agivano ed operavano divenendo al tempo stesso vittime e carnefici».
Ciò premesso – si legge nella pronuncia – «ritiene questa Corte di Assise che tutte le condotte come descritte dalle dichiarazioni testimoniali e, in parte qua, dalle denunce incrociate delle parti acquisite agli atti, abbiano costituito quell’habitat di continuità e abitualità lesivo della serenità esistenziale e della dignità di tutti i membri della famiglia Montefusco. E difatti, può parlarsi di condotta maltrattante laddove i comportamenti, reiterati, e operanti nell’ambito di una relazione affettiva, siano volti a ledere la dignità della persona offesa, ad annientarne pensieri ed azioni indipendenti, a limitarne la sfera di libertà ed autodeterminazione, ovvero laddove siano volontariamente lesive dell’integrità fisica, della libertà o del decoro, oppure degradanti fisicamente o moralmente nei confronti di una persona della famiglia, di un convivente, o di una persona che sia sottoposta all’autorità del soggetto agente o sia a lui affidata».
La condotta tipica appare, «come nel caso che ci occupa, caratterizzata da una pluralità di atti reiterati e frequenti, lesivi della integrità fisica e/o morale dei soggetti passivi, sia commissivi, che omissivi, come nel caso della privazione di beni materiali cui il Montefusco, seppur per un breve periodo, aveva sottoposto sia la moglie che la figliastra».
La più recente e condivisibile giurisprudenza «ha precisato che il reato di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche nel caso – analogo a quello che oggi ci occupa – in cui le condotte violente e vessatorie siano poste in essere dai familiari in danno reciproco gli uni degli altri, evidenziando come la norma incriminatrice non preveda il ricorso a forme di sostanziale autotutela, mediante un regime di “compensazione” fra condotte penalmente rilevanti reciprocamente poste in essere».
Passando alle circostanze aggravanti, la Corte di Assise non ha riconosciuto quella dei dei futili motivi perché «il movente che ha portava l’imputato a sopprimere le due donne in passato amate non può essere ricondotto e ridotto a un mero contenuto economico avente ad oggetto il valore della villa; lo stesso è piuttosto da riferirsi alla condizione psicologica di profondo disagio, di umiliazione e di enorme frustrazione vissuta dall’imputato, a cagione del clima di altissima conflittualità che si era venuto a creare nell’ambito del menage coniugale e della concreta evenienza che lui stesso dovesse abbandonare l’abitazione familiare e con essa anche il controllo e la cura dell’amato figlio ragioni queste che non possono assolutamente considerarsi né futili né, tantomeno, abiette».
Quanto alle circostanze attenuanti generiche, l’imputato ne è stato ritenuto meritevole per la confessione, per la sostanziale incensuratezza, per il corretto contegno processuale e per la situazione che si era creata nell‘ambiente familiare e che lo ha indotto a compiere il tragico gesto.
Quanto alla prima circostanza, secondo la Corte di Assise «la confessione non può ritenersi strumentale (in quanto orientata ad ottenere un qualsivoglia beneficio idoneo a consentire diminuzioni di pena) considerata l’età anagrafica del prevenuto, per cui anche una condanna a venti anni sarebbe equivalsa al carcere a vita, nonché la sua stessa personalità, ligia fino al giorno dei tragici fatti al rispetto della legge e ben consapevole della profonda antigiuridicità della condotta criminosa da lui stesso integrata e per cui oggi si procede».
Per quanto attiene allo stato di incensuratezza, i giudici hanno evidenziato come l’imputato, «arrivato incensurato fino all’età di 70 anni, non avrebbe mai perpetrato delitti di così rilevante gravità se non spinto dalle nefaste dinamiche familiari che si erano col tempo innescate tra gli abitanti della villa ed all’esclusivo fine di difendere e proteggere il proprio figlio e le sue proprietà».
Quanto, infine, al clima familiare, la Corte ha valorizzato la «rilevante incidenza e l’efficacia determinante che ha rivestito il contegno delle due vittime nella formazione della volontà omicida del predetto», osservando come «la minore antigiuridicità della condotta del Montefusco, che non agiva frigido pacatoque animo, bensì in un impeto d’ira che ben riduceva le sue stesse capacità di autocontrollo, se pure non possa trovare considerazione nella diminuzione della pena per effetto dell’applicazione della attenuante della provocazione (insussistente) ben tuttavia possa e debba essere oggetto di valutazione a fini di ridimensionamento della irroganda sanzione».
Non può, infatti, non tenersi conto – osservano i giudici – «di tutta quella serie di condotte unilaterali e reciproche che, susseguitesi nel tempo e cumulativamente considerate, se pure non abbiano integrato la provocazione per il difetto di proporzionalità tra offesa e difesa, hanno senz’altro determinato l’abnorme e tuttavia causale reazione dell’imputato».
Argomenti – quelli appena sintetizzati – che hanno portato la Corte di Assise a ritenere «le attenuanti generiche equivalenti alle residue aggravanti contestate al Montefusco, in ragione della comprensibilità umana dei motivi che hanno spinto l’autore a commettere il fatto reato».
Le attenuanti generiche – conclude la sentenza – «costituiscono il “luogo privilegiato” in cui trovano spazio considerazioni di equità a favore del reo, in ragione delle circostanze individuali nelle quali si è trovato ad agire all’epoca dei fatti. E ciò, segnatamente, per i delitti di competenza della Corte di Assise, la cui esistenza trova la ragion d’essere della composizione mista del giudicante, sia nella necessità che le pene più gravi siano irrogate in nome del popolo italiano da una giuria che lo contempli nella sua effettiva costituzione e non solo simbolicamente; sia nella capacità del cittadino comune (che si esprime al di là dei tecnicismi propri del giudice togato ed oltre gli stessi) di comprendere, di giudicare e infine di calibrare la sanzione utilizzando la sensibilità, il senso logico ed etico, la quotidiana esperienza, l’assennatezza del quisque de populo, ed, in ultima analisi, l’onestà e il comune sentire del buon padre di famiglia di latina memoria».
Citando la Corte costituzionale, i giudici hanno ricordato come «attraverso tale ragionamento si vada ad attuare il principio di proporzionalità, desunto dagli artt. 3 e 27 della Costituzione, che esige che la pena sia adeguatamente calibrata non solo al concreto contenuto di offensività del fatto di reato per gli interessi protetti, ma anche al disvalore soggettivo espresso dal fatto medesimo il quale a sua volta dipende in maniera determinante non solo dal contenuto della volontà criminosa (dolosa o colposa) e dal grado del dolo o della colpa, ma anche dalla eventuale presenza di fattori che hanno influito sul processo motivazionale dell’autore, rendendolo più o meno rimproverabile».
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