Via Pontano a Milano, il ritrovo degli street-artist e quel vecchio omicidio nella galleria dei murales

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di
Gianni Santucci

Greco, le opere di street art tra i ponti e la ferrovia. L’omicidio di una donna e il sacerdote suicida. L’ipotesi del serial killer (ignoto) degli anni Sessanta

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In galleria, a qualche decina di metri dal corpo, ritrovarono un orologio d’oro e un rosario. Nella tasca dei pantaloni, un biglietto di convocazione (il secondo) della questura di Milano, «per comunicazioni che lo riguardavano». Don Paolo Siccardi, 54 anni, cappellano di bordo sul transatlantico «Andrea C.», residente a Genova, si buttò sotto un treno il 25 gennaio 1964, non lontano da Ronco Scrivia, sui monti liguri. Prima di suicidarsi s’inoltrò a piedi nel buio del tunnel dei Giovi: voleva «cancellare non soltanto la sua vita, ma anche il suo corpo, scegliendo, per la realizzazione del suo disperato proposito, il punto più tenebroso e isolato della galleria». Il treno era diretto a Milano, e su quello stesso convoglio don Paolo, più volte in passato, aveva viaggiato proprio per raggiungere la città, e incontrarsi con Olimpia Drusin. Lo certificavano i registri degli hotel. Si pensò che ebbe terrore dello scandalo, ora che la polizia lo stava interrogando: perché Olimpia, 44 anni, era stata massacrata con 27 coltellate un paio di mesi prima, nella notte tra 26 e 27 novembre 1963, in via Pontano.

Il cadavere lo trovarono al mattino due operai, dentro l’auto che la donna usava per raggiungere gli uomini con i quali concordava i suoi incontri. Lo scenario dell’omicidio lo descrisse sul Corriere un grande cronista, Arnaldo Giuliani: «Milano si è alzata senza alba sotto un cielo di pioggia. Laggiù, a Greco, le ciminiere fumano smog, il treno corre sui binari del terrapieno. Sono le 8 e il meccanismo del lavoro degli uomini gira già a pieno ritmo. Immersa nel quartiere, un’unica strada, a fondo cieco, ha ancora l’immobilità della notte: via Pontano, sulla destra di viale Monza, sotto e oltre il cavalcavia della ferrovie». Oggi, mezzo secolo dopo, via Pontano è ancora una strada cieca, che va a spegnersi nel deposito della «manutenzione strade», col percorso segnato dalla ferrovia che proviene dalla Centrale e in quel punto curva nella diramazione verso Lambrate. Rispetto all’epoca dell’omicidio, quando soffocava in un grigiore immanente, ora è un trionfo esuberante di cromatismo, la più densa tra le vene urbane della street art milanese, una rincorsa e sovrapposizione continua di murales tra le pareti della massicciata e i sottopassi, un mondo a parte in cui tutto è colore.




















































Ancora dalla cronaca dell’omicidio: «Una via appartata dove già i ladri hanno più volte abbandonato le auto rubate. Per questo l’Appia terza serie, color grigio topo, parcheggiata a spina di pesce, richiama l’attenzione di due impiegati che stanno arrivando. L’occhiata gettata nell’interno rimanda uno spettacolo che taglia le gambe. Il corpo della donna appare riverso sul sedile di guida inclinato all’indietro. Le vesti sono una spugna di sangue raggrumato». Ventisette coltellate sono un massacro. Il coltello viene trovato a qualche decina di metri, buttato via, ma non rivela indizi sull’assassino: che non verrà mai trovato.

L’omicidio di Olimpia Drusin, che era separata dal marito e aveva un figlio all’epoca diciannovenne, è uno di quei crimini che ancora aleggiano nella storia nera della città: per il male che ha inghiottì la vittima, che investì la sua famiglia, che si propagò nel suicidio del sacerdote (pur se non era indiziato dell’uccisione); in qualche modo tuttora racconta e ricorda la catena di tragedie umane dalle analoghe caratteristiche che hanno costellato di violenza i decenni dopo la guerra: Maria Boccuzzi, 33 anni, conosciuta nei teatri di varietà col nome di Mary Pirimpo, trovata cadavere nelle acque dell’Olona in piazza Stuparich il 28 gennaio 1953 (la sua fine avrebbe ispirato la «Canzone di Marinella» di Fabrizio De André); Paola Del Bono, uccisa il 13 marzo 1959 e gettata in una roggia, del suo omicidio si auto-accusò un noto ingegnere, che poi ritrattò; Maria Maglia, 23 anni, strangolata il 15 marzo 1960 in via Rubens, madre d’un bimbo di un anno; Elisa Casarotto, 29 anni, veneta d’origine, una casa dietro piazza Pompeo Castelli, pugnalata in un bosco di Lacchiarella il 5 maggio 1964; Margherita Grossi, 34 anni e tre figli, originaria di Lione, uccisa in uno scantinato di via Ausonio il 9 marzo 1965. Donne e ragazze dalla vita complicata. Nessuno, tra questi omicidi, ha avuto giustizia. 

Alcuni però, per modalità e caratteristiche, rientrano nel lavoro di scavo che il criminologo Franco Posa ha costruito su nuove basi scientifiche e di cui il Corriere ha dato conto nel 2021: nell’ipotesi che nella Milano del terrorismo, tra anni Sessanta e Settanta, si muovesse anche un serial killer: le 27 coltellate sul suo corpo, farebbero di Olimpia Drusin una delle sette vittime.

A pochi metri da dove fu trovato il cadavere della donna, 17 anni prima, il 27 febbraio 1946, era caduto in un feroce conflitto a fuoco con la polizia il bandito Sandro Bezzi, ex pugile ed ex operaio dell’Alfa. Con Ezio Barbieri, era il capo della più scalmanata banda di rapinatori milanesi del Dopoguerra. Erano da poco evasi insieme da San Vittore.


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