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Alla faccia del salario minimo. Paghe «sotto la soglia di povertà» e «sproporzionate rispetto alla quantità e alla qualità del lavoro» svolto, nonché «insufficienti ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Nonostante, ed è qui che le cose si fanno pure più intollerabili, ratificate dagli accordi sindacali: cioè del tutto in regola, non contestate, precise alla lettera. Epperò con quel cavillo (che cavillo non è) dell’articolo 36 della Costituzione che la procura di Milano oggi (giustamente) sbandiera.

Le maschere nei teatri. I commessi. I portieri. I custodi. Le hostess e gli steward (non sugli aerei ma) nei musei. Quei dipendenti, spesso a contratto tramite una cooperativa, di cui il più delle volte manco t’accorgi e che ti indicano, sempre col sorriso sulle labbra, sempre gentili e disponibili, qual è il tuo posto, che ti tengono l’uscio aperto, che “stazionano” nelle sale coi dipinti o gli affreschi affinchè non ci siano problemi. In questo caso la coop di riferimento è la Fema e ha, in tutto, 492 assunti. Fornisce manodopera a istituzioni della cultura come La Scala di Milano o il Piccolo teatro o la Fiera (ancora di Milano): ma la fornisce, mettiamola così, con compensi che al mese non fanno uno stipendio decente. Oscillano tra i 5,56 e i 6,61 euro all’ora, che a scadenza mensile fanno 1.107 euro, per i più “fortunati” 1.146. Lordi. Toglici le tasse e ti restano in tasca praticamente spicci. Una retribuzione del genere «non basta per vivere», racconta, per esempio, una donna nelle pagine dei verbali raccolte dalla magistratura meneghina: «Al mese percepisco all’incirca 600 euro netti, non riesco a capire come sia possibile che uno Stato accetti una cosa così bassa».

 

 

 

A queste condizioni per campare sei «costretto a mantenere questo impiego», spiega un altro; ma se non arrotondi con aiuti di carattere famigliare (dalla moglie, dai genitori, dal marito, da chicchessia) le bollette non le saldi. L’alternativa è «svolgere anche altro lavoro», però primo, le giornate sono fatte di ventiquattro ore per tutti e secondo, se sei un po’ il là con l’età non è che le occasioni siano una prateria sterminata.

Il pm di Milano Paolo Storari ha firmato nei giorni scorsi un provvedimento accusando il presidente di Fema nientemeno che di caporalato perché, fino a luglio del 2024, avrebbe reclutato «manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento e approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori». Per questo motivo sulla coop è stato disposto in via d’urgenza il controllo giudiziario con la conseguente nomina di un amministratore giudiziario che ha, adesso, il compito di interrompere «una situazione di vero e proprio sfruttamento lavorativo».

Conseguenze che altre due cooperative analoghe (la Socoma e la Domina, quest’ultima gestisce collaborazioni addirittura col Comune e l’Arcidiocesi di Milano, nonché con la stessa procura e il tribunale del capoluogo lombardo) hanno evitato per un pelo dato che i loro rispettivi avvocati non hanno perso tempo e, davanti agli accertamenti della procura milanese, hanno immediatamente risposto con documenti che attestano come, maniera «spontanea», recentemente abbiano alzato i salari dei loro contratti persino del 47% (incrementando quindi le paghe dai quei cinque euro scarsi ai 7,23 orari di ora).

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La procura di Milano sottolinea come, secondo lei, i lavoratori di Fema abbiano percepito «una retribuzione non corrispondente ai requisiti di proporzionalità e sufficienza evocati dall’articolo 36 della Costituzione», tra l’altro «alla luce di riferimenti legislativi, statistici ed economici» come il rischio di povertà lavorativa che l’Istat (nel suo rapporto del 2024) indica alla soglia di 8,5 euro percepiti all’ora e il trattamento mensile naspi che, invece, l’Inps colloca ai 1.550 euro lordi. Per il pm Storari questa è una «situazione di illegalità» sulla quale bisogna intervenire essendo «indispensabile far cessare al più presto» quanto portato alla luce.

 

 

 

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