L’autore del celebre collettivo presenta il suo ultimo romanzo a Ravenna e Cervia. «In un sacco di posti non si doveva costruire e non dovrebbe abitarci nessuno»
Gli uomini pesce è l’ultimo romanzo solista di Wu Ming 1, pubblicato lo scorso ottobre da Einaudi. In un’opera che salta di continuo fra realtà e finzione – spesso senza che il lettore si renda conto dove finisca una e inizi l’altra – l’autore ci porta in un’intricata e affascinante vicenda ambientata nel Delta ferrarese, tra la seconda guerra mondiale e i nostri giorni. Sullo sfondo ci sono temi che ci toccano da vicino come la pandemia e l’identità di genere; la prima ancora poco rielaborata dalla letteratura italiana, la seconda affrontata da Wu Ming 1 in modo molto delicato, in controtendenza rispetto alla discussione conflittuale e polarizzata che è esplosa negli ultimi anni. Ma soprattutto ci sono la crisi climatica e l’innalzamento del mare, di cui questo territorio subisce le conseguenze più di altri. Si tratta di questioni che il collettivo Wu Ming ha più volte affrontato nel suo blog Giap, in modo consapevole, militante e non allineato.
Sabato 18 gennaio Wu Ming 1 sarà nel ravennate per un doppio appuntamento: alle 17.30 nel capoluogo, alla sala Ragazzini (Largo Firenze), per intervenire alla tavola rotonda organizzata dall’ordine degli architetti (in collaborazione con i circoli Arci Dock61 e Arci Ravenna) “Ecologia dell’azione. Territori e cambiamenti climatici” (in dialogo con Alessandro Iannucci, Rita Rava, Veronica Rinasti e Saveria Teston; organizza l’Ordine degli architetti in collaborazione con i circoli Arci Dock61 e Arci Ravenna) e alle 21 al teatro comunale di Cervia per presentare il suo romanzo nell’ambito della rassegna “Il porto delle storie” (in dialogo con Emiliano Visconti e con letture di Marco Manfredi). Abbiamo intervistato l’autore a partire dal libro, per arrivare alla controversa gestione del territorio prima e dopo le alluvioni.
Gli uomini pesce intreccia la storia del partigiano Ilario Nevi con quella della nipote geografa Antonia, che ne ripercorre le tracce e i misteri. Nelle parti riguardanti il passato, è vivo il senso di memoria e di ferita che ancora oggi provocano il fascismo e la guerriglia di liberazione; mentre nelle pagine ambientate ai nostri giorni, aleggiano due grandi traumi, il Covid e la crisi climatica. Qual è il compito della letteratura, e dell’arte in generale, nel rielaborare gli shock collettivi?
«Si è provato tante volte a definire compiti e doveri della letteratura; io mi limito a dire cosa non dovrebbe fare la letteratura che interessa a noi Wu Ming e, in quanto autore “solista”, a me: non dovrebbe mai sentirsi in pace. Un libro va scritto stando sul ciglio del baratro, a mezzo passo dalla défaillance, dallo scacco totale. Lì, in quello stato di bilico, ha luogo quella che chiamiamo la “mediazione al rialzo”, cioè si superano stalli e incertezze trovando idee più azzardate, idee non accomodanti. E a ogni progetto si alza la posta, in termini di complessità e di rischio. In una recensione uscita sulla rivista letteraria La balena bianca, Simone Giorgio ha scritto che Gli uomini pesce è uno dei primi romanzi italiani a trattare della pandemia di Covid e delle sue conseguenze. È, tra le altre cose, proprio quello che volevo scrivere: un romanzo post-Covid. Non volevo però che gli scazzi e strascichi pandemici si prendessero tutta la scena. Allo stesso tempo, è un romanzo sulla questione climatica, dove però il clima non è trattato come un tema specifico, separato, ma come il tema dentro cui avviene tutto il resto. Il clima è la cornice e la precondizione delle nostre vite e di ogni nostra attività. Gli uomini pesce tratta poi spinose questioni di genere, ma senza gridarlo ai quattro venti né incentrando tutto su quello, e affronta il pessimo rapporto del Paese con la memoria pubblica del fascismo, del dopoguerra, dello stragismo nero degli anni settanta, ma lo fa senza mai smettere di parlare anche d’altro. Perché è così che va: in ogni momento della nostra vita tutti questi problemi agiscono in contemporanea, non è che uno se ne va per lasciare il posto a un altro».
Nel romanzo non risparmi feroci critiche alle bonifiche nel Delta, alla gestione artificiale dei fiumi e alla cementificazione del litorale. Allo stesso tempo, a Ferrara fai parte di un gruppo multidisciplinare di artisti, scienziati, studiosi e insegnanti che ha elaborato e sottoscritto il manifesto “Tornare nel Delta al tempo della crisi climatica”. Il testo sensibilizza su molti temi legati al riscaldamento globale, a partire dal tuo territorio natio, il basso ferrarese, ma ampliando lo sguardo con una complessità, sensibilità e lungimiranza oggi rare. Cosa è stato fatto di sbagliato?
«Vent’anni fa la geografa Paola Bonora, nel libro Orfana e claudicante, scriveva già che i miti dell’Emilia-Romagna “rossa” e del “buongoverno del territorio” servivano a coprire una situazione di vuoto progettuale e di completa resa delle amministrazioni al neoliberismo e agli interessi privati. Non solo: descriveva con lungimiranza l’odierno combinato disposto di devastazione ambientale e greenwashing istituzionale. Ed era il 2005. È cruciale capire come mai l’Emilia-Romagna sia diventata un punto caldo della crisi climatica. Dipende dalla sua conformazione e posizione geografica, dalla sua storia e, nel presente, dalla sua economia reale, che ogni giorno è descritta come una cornucopia di “eccellenze” e che invece si sta rivelando la peggiore possibile, la più inadeguata all’oggi. Alcuni nodi stanno venendo al pettine, come quello dell’automotive, la Motor Valley. Ma basterebbe dire che si spaccia per fiore all’occhiello la Packaging Valley, cioè la più alta concentrazione al mondo di industrie che prosperano sull’onnipresenza della plastica e sull’incultura dell’usa-e-getta. Ancora, gli altri pilastri del capitalismo emiliano-romagnolo sono cemento e asfalto, e forse è superfluo farlo notare a Ravenna, capitale del consumo di suolo, o forse no, proprio a Ravenna è importante dirlo. Poi un’agroindustria gonfia di veleni che sperpera acqua e impoverisce i suoli, spesso per alimentare colossali allevamenti intensivi i cui impatti ambientali e climatici vanno oltre l’immaginabile. A proposito, come mai per gli allevamenti non si parla di Death Valley? Infine, un turismo predatorio che è in punto di morte ma tutti fingono sia pimpante, o comunque irrinunciabile, da difendere a ogni costo».
Le alluvioni hanno reso evidente la necessità di ripensare l’intera gestione del territorio, ma la consapevolezza politica sembra ancora inesistente: il tema è oggetto di retorica, ma di fatto si va avanti come sempre.
«Ricostruire le condizioni del “successo” emiliano-romagnolo, che ora la crisi climatica fa saltare, è necessario. A volte ci dicono che dalle alluvioni del 2023 ci concentriamo troppo sulla nostra regione, ma se parli solo del globale rischi l’astrattezza, è più difficile far capire cosa sta succedendo, mostrare il legame tra sviluppo capitalistico e crisi climatica, e così alle controparti è più facile rimuovere il problema o far credere che di fronte alla crisi climatica serva ancora più sviluppo. Calando l’analisi in situazione, invece, si può far capire meglio, far sentire sulla pelle. Certo, non è automatico: ci sono un sacco di ostacoli culturali, imbullonati nell’abitudine, nelle consuetudini, nel comfort percettivo. Pensiamo a un’insofferenza tipica delle nostre parti: quella per il verde spontaneo, “disordinato”. Se amministri un Comune, prova anche solo a ridurre il numero degli sfalci dei prati: ti subissano di improperi. Hai voglia a spiegare che rasare i prati significa uccidere il suolo, l’ecosistema più prezioso al mondo, e preparare nuovi disastri. Il peggio è quando questo si fa lungo i corsi d’acqua, sugli argini, nelle golene. Ogni volta che in rete appare la foto di un terrapieno appena rasato, di un bosco ripario annichilito, sotto è pieno di commenti soddisfatti. È gente a cui hanno insegnato l’odio per la natura che “fa per proprio conto”, che si arrangia da sola, che non è solo ornamentale. Cioè l’odio per gli ecosistemi, basato sull’ignoranza di cosa sia il suolo, di cosa sia un corso d’acqua, di come possa comportarsi l’acqua nella tale o tal altra situazione. Tant’è che si edifica nelle zone di passate esondazioni, o in sprofondi che sono stati bonificati. Luoghi che già in condizioni “normali” restano emersi a stento, ma anche questo non si sa più: che senza l’opera quotidiana dei consorzi di bonifica, gran parte della nostra pianura tornerebbe sott’acqua. La verità è che in un sacco di posti non si doveva costruire. Non dovrebbe abitarci nessuno. Chi ci vive è vittima di una truffa sistemica, perpetrata da chi ha deciso quelle bonifiche, da chi ha “rettificato” quei fiumi, da chi ha fatto i piani urbanistici, da chi ha costruito quei quartieri, da chi ha venduto quelle case, e da chi continua a girare intorno al problema, proponendo diversivi, palliativi o addirittura interventi che aggravano la situazione. Per uscire da questa situazione bisogna aver chiaro per cosa lottare, perciò serve recuperare un rapporto col territorio, tornare a conoscerlo, a comprenderne la vocazione. Nel manifesto “Tornare nel Delta” proponiamo un approccio e una prospettiva; il documento sta suscitando interesse, vedremo come andrà».
Come ricordavi, Ravenna è ai vertici delle classifiche Ispra sul consumo di suolo. È anche un distretto dell’energia fossile e, nonostante stia subendo le conseguenze della crisi climatica, continua a investire su infrastrutture pesanti come il rigassificatore e il nuovo terminal crociere. L’ultima amministrazione non si è distinta dalle precedenti, eppure l’ex sindaco, oggi presidente regionale, benché non goda della stima degli ambientalisti, è riuscito ad avere il supporto di liste verdi e di sinistra…
«I dati e i dati di fatto sull’inquinamento, sul consumo di suolo, sull’esclusione che aumenta in questa regione dipinta come “la più progressista d’Italia” sono impietosi. Plateali sono gli scempi urbanistici, le logiche distorte e la noncuranza con cui si prendono decisioni sul territorio, gli innumerevoli boomerang che tornano a colpirci, l’arroganza sviluppista di questa classe dirigente, i finti processi partecipativi che mascherano una concezione autoritaria dei processi decisionali… “Autoritarismo soft”, lo chiama qualcuno, ma le conseguenze sono hard. Non ha senso condonare ogni volta tutto questo, lasciar correre in nome del “menopeggismo”, mangiarsi questa minestra dicendo pure un fintissimo “slurp!”. Proprio a colpi di “mali minori”, le logiche neoliberiste sono penetrate in ogni meandro della società come il proverbiale coltello nel burro. Giustamente si temono le destre, ma ritengo più plausibile che un’alternativa alle destre nasca dai movimenti in difesa del territorio e contro le politiche ecocide, piuttosto che dall’ennesimo “ricompattamento a sinistra”, da operazioni che pretendono di incollare rottami di ceti politici, da qualunque azione si intraprenda all’insegna del menopeggismo».
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