Nel 2023 abbiamo esportato, quasi sempre a caro prezzo, circa 800 mila tonnellate di rifiuti combustibili derivanti dal trattamento degli urbani. La maggior parte è finita in impianti di incenerimento, ma almeno 100 mila tonnellate hanno sostituito i più inquinanti e costosi combustibili fossili nei cementifici da Cipro alla Bulgaria. Nel frattempo in Italia il tasso di sostituzione resta di poco superiore al 25%
Dagli inceneritori in Svezia, Finlandia e Danimarca ai cementifici in Grecia e a Cipro. O in Bulgaria, Slovenia e Slovacchia. Altro che principio di prossimità: anche nel 2023 i rifiuti italiani non riciclabili sono finiti ad alimentare impianti produttivi dal nord al sud dell’Europa. Caricate su camion, treni e navi, poco meno di 800 mila tonnellate tonnellate di scarti, sovvalli e CSS sono state spedite a ogni latitudine del Vecchio Continente – quasi sempre a caro prezzo – per essere sostituite ai combustibili fossili nella produzione di energia termica ed elettrica. Tutto questo mentre le bollette tornano a salire e nonostante la normativa nazionale, quella comunitaria e anche i pronunciamenti della Corte di Giustizia europea, vincolino le Regioni – titolari della pianificazione in materia di rifiuti urbani – a garantire il recupero in impianti quanto più vicini al luogo di produzione e di raccolta. Previsioni che anche lo scorso anno sono rimaste lettera morta lungo tutto lo Stivale, dal Trentino alla Calabria, con Campania, Lazio e Sicilia ad aggiudicarsi ancora una volta il podio delle esportazioni oltreconfine.
Stando all’ultimo rapporto ISPRA sui rifiuti urbani, nel 2023 l’Italia ha spedito a recupero energetico in altre nazioni circa 795 mila tonnellate di rifiuti, tra cui oltre 370 mila tonnellate di rifiuti combustibili come il CSS (Combustibile Solido Secondario), più di 312 mila tonnellate di rifiuti appartenenti al codice EER 191212, ovvero le frazioni decadenti dal trattamento meccanico biologico dell’indifferenziato urbano, e 28 mila tonnellate di indifferenziato tal quale che da Roma sono finite direttamente nell’inceneritore di Amsterdam senza alcun tipo di trattamento intermedio. Una soluzione tampone per “sopperire alla chiusura della discarica di Albano Laziale”, spiegava lo scorso anno il Comune di Roma. Una manovra costata alle casse della Capitale circa 200 euro la tonnellata, per mettere l’ennesima toppa al disastrato ciclo capitolino in attesa dell’entrata in funzione del nuovo impianto di incenerimento di Santa Palomba.
Complessivamente, riporta ISPRA, di fronte all’impossibilità di chiudere il ciclo entro i confini regionali e non trovando migliore collocazione sul mercato nazionale, nel 2023 il Lazio ha esportato oltre 100 mila tonnellate di rifiuti destinati a recupero energetico, di cui oltre 67 mila di combustibile CSS, finite negli impianti di almeno otto paesi diversi, tra cui inceneritori in Svezia e Paesi Bassi. Meglio del Lazio solo la Campania, che con 310 mila tonnellate anche nel 2023 è risultata la prima regione italiana per quantità di rifiuti combustibili esportati all’estero, destinati prevalentemente a inceneritori in Svezia, Germania, Austria e Paesi Bassi. Spedizioni motivate, anche in questo caso, “dall’insufficiente capacità tecnico ricettiva degli impianti di recupero presenti sul territorio nazionale e locale”, come riportato in uno tra i tanti decreti di autorizzazione ai trasferimenti adottati nel corso del 2023 dalla competente direzione regionale. Terza, per quantità di rifiuti combustibili esportati all’estero, la Sicilia, che nel 2023 ha piazzato oltre 66 mila tonnellate dei propri sovvalli all’altro capo d’Europa, negli inceneritori di Danimarca, Finlandia e Paesi Bassi. A un costo, nel caso della sola Danimarca (dove sono finite oltre 56 mila tonnellate di rifiuti) di circa 380 euro la tonnellata.
Sull’isola come a Roma e nel Lazio, del resto, una volta esaurita la disponibilità sul territorio si ricorre alle costose spedizioni all’estero nell’attesa della realizzazione di nuova capacità di incenerimento. E, proprio come a Roma, dopo anni di annunci, processi alle intenzioni e conflitti politici intorno al nulla, in Sicilia il nuovo piano rifiuti approvato la scorsa primavera dalla giunta regionale ha per la prima volta programmato la realizzazione di due impianti di recupero energetico, a Palermo e Catania. L’obiettivo, come sottolineava il presidente della Regione e commissario ai rifiuti Renato Schifani, è quello di “cambiare approccio rispetto al tema”. Vale a dire passare da una gestione quasi completamente impostata sulle discariche, che ancora oggi ingoiano il 35% di tutti i rifiuti prodotti sull’isola, a una nella quale i rifiuti residui vengano considerati “una risorsa che va valorizzata e trasformata in energia”. Cosa che all’estero sanno fare benissimo, non solo trasformando i nostri rifiuti – quelli che paghiamo per esportare – in calore ed elettricità negli inceneritori, ma anche utilizzandoli nei cementifici per sostituire carbone e pet coke, i combustibili fossili generalmente utilizzati per alimentare la marcia dei forni per il klinker.
Stando al rapporto ISPRA, almeno 100 mila tonnellate di rifiuti combustibili (ma il totale potrebbe essere sensibilmente più elevato) sono stati esportati per essere utilizzati all’estero nel ciclo del cemento. Nel solo cementificio di Nicosia a Cipro, ad esempio, sono finite oltre 63 mila tonnellate di CSS, 23 mila delle quali provenienti dal Lazio, che con 4.600 tonnellate ha alimentato anche un forno in Grecia. Il cementificio di Devnya, in Bulgaria, ha utilizzato invece 2.499 tonnellate di CSS provenienti dalla Puglia (parte di un contratto pluriennale siglato nel 2022 per 15 mila tonnellate complessive), mentre Slovenia e Slovacchia hanno utilizzato nei loro cementifici rispettivamente 10 mila e 6 mila tonnellate di rifiuti combustibili provenienti da Lombardia, Veneto e Friuli-Venezia Giulia. Quest’ultima ha poi da anni un consolidato rapporto commerciale con l’austriaca W&P Zement, alla quale nel 2023 ha fornito – pagando circa cento euro per ogni tonnellata – oltre 14 mila tonnellate di CSS.
Insomma, noi paghiamo per esportare rifiuti combustibili nell’attesa di costruire nuovi inceneritori, loro incassano e in più risparmiano acquistando meno combustibili fossili per i cementifici. Che poi sono gli stessi cementifici che abbiamo anche noi. Solo che, secondo quanto riporta Federbeton nel suo ultimo rapporto di sostenibilità, il tasso di sostituzione calorica del CSS ai combustibili fossili nei forni attivi su tutto il territorio nazionale si è attestato nel 2023 al 25,5%, a fronte di una media europea del 57,6%. Colpa di “fenomeni di mancato consenso sociale, processi autorizzativi di durata incerta e approcci disomogenei sul territorio nazionale da parte delle autorità competenti”, scrive l’associazione, che nonostante tutto si dice pronta a raggiungere un tasso di sostituzione del 47% al 2030 e dell’80% al 2050.
Nel frattempo, anche se lentamente, qualcosa si muove. Secondo Federbeton il CSS utilizzato nei cementifici italiani, inclusa la versione CSS-c o ‘end of waste’, è passato da 301 mila tonnellate nel 2022 a poco meno di 380 mila nel 2023. Il CSS-c, in particolare, con oltre 119 mila tonnellate ha visto un aumento dell’87,57% rispetto all’anno precedente, come scrive il comitato di monitoraggio istituito dal Ministero dell’Ambiente per misurare l’efficacia del decreto ‘end of waste’ che dal 2013 disciplina la produzione della versione ‘nobile’ del combustibile da rifiuti. Combustibile di alta qualità che i cementifici acquistano dagli impianti che lo producono, a differenza della versione CSS rifiuto, che invece i cementifici, come i termovalorizzatori, utilizzano dietro pagamento di una tariffa di conferimento. Complessivamente, incrociando i dati dei rapporti di Federbeton, ISPRA e del comitato di monitoraggio, viene fuori che lo scorso anno, su 28 cementerie a ciclo completo distribuite sul territorio nazionale, sono 13 quelle che hanno utilizzato anche combustibile da rifiuti, delle quali solo 7 hanno acquistato CSS-c.
In un contesto ancora caratterizzato da ritardi e “ostacoli rilevanti”, osserva il comitato, questi numeri rappresentano tuttavia “un segnale positivo”. Anche e soprattutto per l’industria nazionale del cemento, visto che l’utilizzo dei combustibili alternativi “consente di migliorare la competitività del settore industriale, riducendo i costi associati all’approvvigionamento di energia, attenuandone inoltre gli effetti che derivano dal loro aumento repentino per l’instabilità geopolitica mondiale”. Senza dimenticare, sottolinea il comitato, che “l’uso del CSS-c in sostituzione dei combustibili fossili rappresenta un’importante strategia per ridurre le emissioni nette di CO2, grazie alla sua componente biogenica”. Un contributo significativo alla riduzione delle emissioni generate dal settore, che figura tra quelli ‘hard to abate’, ovvero tra i più difficili da decarbonizzare. Il CSS, dicono insomma i numeri, aiuta a tenere insieme competitività e decarbonizzazione, proprio come il rapporto curato da Mario Draghi ha chiesto all’intera Ue di fare. E come l’Italia sembra far fatica a mettere in pratica, continuando a pagare gli altri per utilizzare quello che non possiamo, o non vogliamo, utilizzare dentro casa nostra.
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