“Gli eventi violenti accaduti nelle scorse settimane a Pontirolo Nuovo, Via Tiraboschi a Bergamo e Seriate sono tristemente umani, più che etnici, per quanto possano essere stati compiuti da cittadini con origine straniera”. Così il dottor Maurizio Previtali, medico chirurgo specialista in psichiatria, si esprime sui drammatici avvenimenti che nelle ultime settimane hanno segnato la cronaca nera bergamasca.
Passati in rassegna, invitano a riflettere sulla nostra società: abbiamo chiesto un parere al dottor Previtali per saperne di più.
Ci troviamo di fronte a un’escalation di aggressività nei rapporti tra le persone? Senza arrivare a comportamenti così eclatanti, nelle relazioni sociali ci sono più tensioni e intolleranza rispetto al passato?
Se ci soffermiamo sugli avvenimenti di cronaca nera accaduti nelle ultime settimane si coglie questo deterioramento. Con uno sguardo più ampio, dobbiamo considerare che l’aggressività è una categoria naturale dell’essere umano, anche se tendenzialmente abbiamo la possibilità di controllarla. Riusciamo a farlo più o meno bene a seconda della situazione in cui ci troviamo. I fattori che incidono su questa capacità sono parecchi e molto diversificati. Si percepisce, oggi, una maggiore fatica a tollerare le frustrazioni che provengono dalle difficoltà a raggiungere i piccoli grandi obiettivi della vita o nel dare risposta alle nostre necessità. Si perdono più facilmente le staffe e nasce un disagio difficile da controllare.
A cosa è dovuta questa fatica?
È una questione ampia e complessa, perché i fattori che influiscono sul controllo dell’aggressività e sulla tolleranza delle frustrazioni sono numerosi. Dalla mia esperienza clinica posso riportare che oggi, a incidere molto, è il fatto che da parecchi anni non vediamo crescita socio-economica. Come spesso si dice: la crescita non è solo una questione finanziaria, ma è un atteggiamento dell’essere: un modo di vedere le cose.
Ci spieghi.
Da troppi anni la società tende a proporci l’idea che si debba imparare a vivere con meno, essere più produttivi, lavorare di notte, nei festivi e nei weekend, formarsi e reinventarsi in continuazione, non viaggiare per contenere le emissioni di carbonio, ecc. A tutto ciò si aggiungono le nostre esorbitanti burocrazie, regole sociali percepite come sempre più opprimenti quali, banalmente, la censura sui social o il nuovo codice della strada. Questi sono fattori di stress che si sommano ai già gravi problemi della vita, e non sono bilanciati da prospettive reali di crescita e di miglioramento dello status sociale. Abbiamo la percezione di stare più stretti, di vivere in case più piccole perché non possiamo permetterci abitazioni più grandi, lavoriamo tanto ma fatichiamo a mettere qualcosa da parte, ci chiediamo se avremo una pensione. Si ha la sensazione che l’ascensore sociale si sia rotto e che non possiamo migliorare la nostra condizione. Al contrario, temiamo di scivolare in uno status socio-economico peggiore.
Qual è l’impatto sulla salute mentale delle persone?
Vivere questo contesto è stressante e demotivante per il singolo individuo, ma ha anche effetti di portata più ampia, a cominciare dai rapporti sociali. Si fatica a costruire relazioni stabili e a immaginare se stessi nel futuro. Vedasi la denatalità, che ha molteplici ragioni, ma che è legata anche al sentire di non potersi occupare di altri oltre sé stessi.
C’è una grande difficoltà nel guardare al futuro
Si, sicuramente. Queste difficoltà generano frustrazione, disagio e la tendenza al discontrollo dell’aggressività. Questa si manifesta in modi disparati, dal rispondere in modo sgarbato al litigare con un ciclista dopo un sorpasso, ma anche prendere decisioni radicali impulsive e poco ragionate è anch’esso, a volte, un modo con cui diamo sfogo alla nostra carica di aggressività. C’è però un altro elemento che incide molto: la mancanza di un senso d’identità.
Cosa intende con “senso d’identità”?
Potersi definire, saper affermare quali sono le cose che ci descrivono come individui e con cui ci identifichiamo. Stiamo attraversando una crisi valoriale che non ha eguali: non la semplice sostituzione di valori vecchi con valori nuovi, come è sempre accaduto nella storia, ma la messa in discussione della nostra cultura in assenza di valori sostitutivi capaci di colmarne vuoto. Senza una visione chiara di sé stessi, si fatica ad esprimersi in modo equilibrato e nemmeno si è in grado di relazionarsi con altri individui, magari stranieri, che hanno un senso d’identità diverso dal nostro, spesso più definito del nostro. Non possiamo chiedere integrazione se non sappiamo in che cosa ci si dovrebbe integrare.
Come mai questo disagio non colpisce tutti allo stesso modo?
Si tratta di un disagio diffuso, ma ogni strato sociale lo vive in modo diverso. Chi si trova in condizioni di vita più difficili ha priorità differenti, lì è una questione di sopravvivenza e se serve si può passare all’atto, anche brutalmente. Chi non ha di questi problemi può sviluppare più facilmente una sindrome depressiva e ripiegarsi su sé stesso.
Anche all’interno di uno stesso strato sociale, però, i singoli individui vivono diversamente questo disagio
A incidere sono molti fattori, a cominciare dalla rete di supporto sociale, che ha un ruolo fondamentale nella nostra vita. Il sostegno dei famigliari e di amici con cui condividere aspetti intimi del proprio essere ha una funzione protettiva importantissima.
Quando compiono gesti efferati, perché le persone non riescono a fermarsi prima?
Anche in questo caso incidono svariati elementi individuali ai quali si possono aggiungere tanti fattori culturali. Alcune culture sono pervase dalla violenza, mentre altre lo sono meno. Non si tratta sempre di una distinzione fra nord e sud del mondo. Lampante è l’esempio degli Usa, che sono il motore dell’occidente, ma che sono anche una società intrisa di violenza: crimini e delitti sono all’ordine del giorno in un paese che viene ritenuto all’avanguardia in molti settori. Se in Italia ci scandalizziamo quando accadono avvenimenti come quelli di Pontirolo Nuovo, via Tiraboschi a Bergamo e Seriate forse significa che non siamo poi così abituati a queste genere di cose. Abbiamo ancora strumenti per poter rispondere al disagio in modo virtuoso.
In che senso?
Si parla di strumenti metacognitivi che rappresentano la nostra capacità di osservare e riflettere sui nostri stati mentali e di elaborare le nostre emozioni. Li acquisiamo con l’istruzione, a scuola e in famiglia, e li esercitiamo nei contesti in cui è richiesto ragionamento e capacità di autoregolazione. Laddove questi strumenti sono carenti assistiamo al proliferare di ogni bassezza e barbarie. I casi di cronaca che si sono verificati in Bergamasca nelle ultime settimane sembrano uscire da un libro di Dickens: parlano delle miserie della condizione umana e sono il romanzo di ogni periferia. ci spingono a riflettere, ma in fin dei conti riguardano atti efferati compiuti da singoli individui. Mi preoccupano maggiormente i fenomeni di aggregazione antisociale simili a quelli delle banlieue delle grandi città francesi, e che in Italia stiamo imparando a conoscere più recentemente. Costituiscono una tipologia di violenza che implica un rifiuto della società o, meglio, dei valori della società in cui si è inseriti. Non offrono molti margini d’intervento perché sono masse poco permeabili all’integrazione, e dilagano nel totale discontrollo.
Potrebbe spiegarci meglio questa distinzione?
I delitti ci colpiscono perché, comprensibilmente, rimaniamo impressionati quando qualcuno viene ammazzato per strada. Gli avvenimenti che si sono verificati nelle scorse settimane a Pontirolo Nuovo, Bergamo e Seriate, naturalmente, sono diversi fra loro, ma tra questi riconosciamo tratti che appartengono anche all’Italia autoctona. Temi come la gelosia, l’invidia, l’avidità, la paura, il tradimento sono comuni anche alla nostra italianità. Sono le miserie dell’essere umano. Gli elementi etnici sono sfumati. Più marcatamente etnici sono fenomeni legati alla mancata integrazione di massa: enclavi straniere autogovernate, spesso nascoste alla nostra vista fin quando deflagrano nella criminalità di gruppo, spesso feroce: coorti estranee al sistema che si rifiutano di dialogare con esso, vere bombe sociali delle quali, temo, avremo modo di accorgerci nei prossimi anni.
Con l’espressione “fattori culturali”, invece, cosa intende?
Oltre ai tratti peculiari del singolo individuo, incide la cultura. Ognuno di noi adopera gli schemi di comportamento che apprende dalla famiglia e dal mondo intorno a sé, quindi per una persona cresciuta in un contesto in cui la violenza è la regola, sarà tendenzialmente più facile passare da un ceffone a una coltellata. Ci si educa alla violenza. Ci sono non poche eccezioni, ma quella del raptus, o irresistibile impulso, è una teoria superata. La violenza e la prevaricazione si apprendono fin da piccoli nei cortili e nelle mura di casa e man mano diventano un linguaggio per interagire col mondo. Nelle periferie e negli ambienti marginati, per non soccombere, si è costretti a rispondere alla violenza con altra violenza, in tutte le sue forme. Rimango comunque dell’idea che la società italiana, almeno per adesso, non possa dirsi violenta. Non possono dire lo stesso altre aree della stessa Europa.
Per concludere, un ultimo spunto di riflessione: in tutti e tre gli avvenimenti, a vario titolo, sono coinvolte donne
È vero. La violenza di genere è un aspetto su cui negli ultimi anni si sta ponendo molta attenzione. Sembra che i casi aumentino in gravità e numero perché se ne parla maggiormente e ci siamo accorti che la nostra società aveva un grosso problema. Questo ci da la possibilità di intervenire. Va osservato, comunque, che l’Italia non è uno dei Paesi in cui la situazione è peggiore da questo punto di vista.
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