Cos’è la net neutrality, cosa dice la legge europea e perché lo stop negli Usa è una vittoria per Trump

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Una corte d’Appello ha annullato le regole sulla neutralità della rete reintrodotte ad aprile dall’agenzia per le comunicazioni dopo essere state abrogate quando alla Casa Bianca c’era il tycoon. In Europa un regolamento c’è dal 2015 (ma viene criticato perché ha troppe deroghe)

Per qualcuno è una forma di democraticità del web, per altri è un’ingiustificata «presa di potere» su Internet e sui suoi operatori. Fatto sta che la net neutrality – la «neutralità della rete» – è tornata prepotentemente al centro del dibattito negli Stati Uniti dopo che una corte d’Appello d’oltreoceano ha stabilito che la Federal Communications Commission (FCC) non aveva l’autorità per ripristinarne le regole.

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È uno dei tanti temi che dividono i democratici dai repubblicani: introdotte sotto l’amministrazione Obama, le norme sulla net neutrality sono state abrogate con Trump e reintrodotte con Biden. Ora la decisione della corte prepara il terreno, e fa un assist, al ritorno del tycoon alla Casa Bianca. E riapre il dibattito anche in Europa, dove dal 2015 esiste un regolamento che però è stato criticato dagli attivisti digitali e anche dal «padre del web» Tim Berners-Lee. Non perché contrari – tutt’altro – ma perché potrebbe e dovrebbe essere scritto meglio.




















































Cosa è la net neutrality

La neutralità della rete è un principio secondo cui le aziende che forniscono l’accesso a Internet – i cosiddetti Internet Service Provider (ISP) – non possono bloccare, limitare il traffico o addebitare tariffe suppletive per favorire loro partner commerciali o loro siti web preferiti. In altre parole, ai fornitori di servizi Internet dovrebbe essere impedito di discriminare i dati che circolano attraverso le loro reti ma dovrebbero essere trattati in modo uguale e senza restrizioni, indipendentemente dal tipo di contenuto, piattaforma o utente.

Per esempio, gli ISP come Comcast e Verizon, o come gli italiani Telecom, Vodafone o Fastweb, non dovrebbero essere in grado di impedire l’accesso a Skype o a Zoom, o rallentare Netflix o YouTube, per spingere indirettamente gli utenti verso servizi preferiti da questi fornitori. Senza protezione della net neutrality, i provider hanno la possibilità di decidere quali siti promuovere o penalizzare, e una grande azienda riuscirebbe, grazie alle sue risorse, a conquistare molta più banda rispetto al piccolo sito blog di un privato cittadino.

La fine della net neutrality negli Usa?

I princìpi non valgono niente se non vengono messi nero su bianco in atti normativi. E così aveva fatto Obama nel 2015. Ora, dopo anni di passi avanti e indietro sulla net neutrality, la corte d’Appello del sesto circuito degli Stati Uniti, con sede a Cincinnati, sembra aver messo un punto sulla questione affermando che la commissione federale americana per le comunicazioni non aveva l’autorità legale per ripristinare le regole di neutralità della rete. La decisione è un duro colpo per l’amministrazione Biden che aveva fatto del ripristino di queste regole una priorità.

La questione è un po’ tecnica. La corte statunitense ha citato un’importante sentenza dello scorso giugno emessa dalla Corte suprema, la Loper Bright Enterprises v. Raimondo, che ha annullato il principio noto come «deferenza Chevron», che dalla metà degli anni Ottanta anni ha consentito alle agenzie federali come la FCC di interpretare le disposizioni poco chiare di propria pertinenza, vincolando così i magistrati. La conseguenza è che ora le corti sono teoricamente «libere» di decidere da sole: quella di Cincinnati ha fatto proprio questo.

La decisione lascia in vigore le regole di neutralità adottate da alcuni Stati come California o Colorado, ma finisce inevitabilmente per stoppare gli sforzi di regolazione a livello federale che vanno avanti da diversi anni. Secondo Public Knowledge, associazione no-profit che si occupa di tematiche etico-digitali, «la corte ha creato un pericoloso vuoto normativo che lascia i consumatori vulnerabili e dà ai fornitori di banda larga un potere incontrollato sull’accesso a Internet degli americani». Non solo: la sentenza apre la strada a interventi della magistratura in tutti gli ambiti i cui regna un’ambiguità legislativa, dalla tecnologia all’ambiente fino all’assistenza sanitaria.

Una vittoria per Trump

Se le conseguenze concrete della sentenza saranno tutte da verificare, sul piano politico è senza dubbio una  vittoria di Trump. Non a caso il futuro presidente della FCC Brendan Carr, fresco di nomina del tycoon, ha salutato con entusiasmo la decisione della corte d’Appello di invalidare quella che ha definito «la presa di potere su Internet» dei democratici, aggiungendo che «il lavoro per eliminare l’eccesso di regolamentazione di Biden continuerà». In nome del «free speech» tanto caro a Elon Musk, Carr è molto critico sui tentativi di moderare i contenuti in rete e sui social e si è impegnato, fin dalla nomina, a «smantellare il cartello di censura» che, secondo il variegato universo trumpiano, oggi controllerebbe la rete.

La net neutrality è stato uno degli ambiti del perenne braccio di ferro tra democratici e repubblicani. Negli Stati Uniti (ma non solo) il dibattito è cresciuto d’importanza in parallelo con lo sviluppo di Internet. Nel 2015 uno snodo fondamentale con l’«Open Internet Order», quando durante l’amministrazione Obama la FCC a maggioranza democratica e guidata da Tom Wheeler ha approvato la normativa per garantire la neutralità della rete, impedendo agli ISP di bloccare, limitare o dare priorità a determinati tipi di traffico. La decisione dell’agenzia federale è stata impugnata dai provider di Internet in una causa, la United States Telecom Ass’n v. FCC, ma il ricorso è stato rigettato dalla Corte suprema.

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Con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca cambia tutto: nel 2017 la nuova agenzia a guida repubblicana e sotto la direzione di Ajit Pai, nemico dichiarato della net neutrality, ha votato per abrogare le regole adottate solo due anni prima, sostenendo che la deregolamentazione avrebbe stimolato innovazione e concorrenza e aprendo la strada a ulteriori battaglie legali, questa volta intentate da realtà come Google, Microsoft, Netflix, Mozilla, eccetera.

Poi è il turno di Biden, che nel 2021 ha firmato un ordine esecutivo in cui incoraggiava la FCC a ripristinare le regole sulle net neutrality adottate nel 2015 con Obama. E ad aprile del 2024 l’agenzia presieduta da Jessica Rosenworcel ha seguito le indicazioni dell’inquilino della Casa Bianca. Ora la sentenza della corte d’Appello del sesto circuito ribalta tutto.

«Per un decennio, ho sostenuto che le cosiddette normative sulla neutralità della rete sono illegali (per non dire inutili)», ha scritto su X l’ex presidente della FCC con Trump, Ajit Pai: «È tempo che le autorità di regolamentazione e gli attivisti si arrendano una volta per tutte su questo non-problema e si concentrino su ciò che conta davvero per i consumatori americani, come migliorare l’accesso a Internet e promuovere l’innovazione online».

Con i repubblicani esultano gli Internet Service Provider

Una soluzione per far tornare in vigore a livello federale le regole ci sarebbe: far muovere il Congresso. L’ha esplicitata la stessa presidente uscente della FCC: «I consumatori di tutto il Paese ci hanno detto più e più volte che vogliono un Internet veloce, aperto ed equo. Con questa decisione è chiaro che il Congresso ora deve ascoltare il loro appello, assumersi la responsabilità della neutralità della rete e inserire i principi di open Internet nella legge federale». Ma è difficile con un Congresso guidato in entrambi i rami da un partito, il GOP, diffidente se non ostile allo Stato amministrativo (di cui la FCC, come le altre agenzie, fa parte).

Esultano i provider di Internet. Per UsTelecom, associazione di categoria che riunisce importanti ISP come At&T e Verizon, la decisione è «una vittoria per i consumatori americani che porterà a maggiori investimenti, innovazione e concorrenza nel dinamico mercato digitale». Dall’altra parte ci sono le associazioni dei consumatori e le big tech, da Amazon ad Apple, da Meta ad Aplhabet.

La net neutrality in Europa

Nell’Unione europea la situazione è un po’ diversa. Innanzitutto perché la net neutrality è stata trattata come questione politica e per questo regolata da organismi politici, come Parlamento e Consiglio, e non amministrativi come la FCC americana. Un regolamento vincolante per tutti gli Stati membri, Italia compresa, è stato approvato nel 2015 ed è entrato in vigore il 30 aprile del 2016.

L’Ue è intervenuta, come si legge nel primo articolo del regolamento, «per garantire un trattamento equo e non discriminatorio del traffico nella fornitura di servizi di accesso a Internet e i relativi diritti degli utenti finali». E all’articolo tre specifica che agli utenti è attribuito il «diritto di accedere a informazioni e contenuti e di diffonderli, nonché di utilizzare e fornire applicazioni e servizi, e utilizzare apparecchiature terminali di loro scelta, indipendentemente dalla sede dell’utente finale o del fornitore o dalla localizzazione, dall’origine o dalla destinazione delle informazioni, dei contenuti, delle applicazioni o del servizio».

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Ma se a differenza degli Stati Uniti in Europa c’è una legislazione organica, nondimeno il regolamento del 2015, tutt’ora in vigore, è stato soggetto a diverse critiche da chi sostiene che in questo modo la net neutrality non sarebbe difesa a sufficienza. Tra le voci più autorevoli c’è Tim Berners-Lee. Già dieci anni fa il padre del world wide web aveva messo in guardia dalle «scappatoie» contenute nel testo regolamento che lasciavano potenzialmente ancora molto spazio ai comportamenti discriminatori degli ISP.

Tra gli aspetti più discussi c’è la possibilità, per i provider, di offrire «servizi specializzati» a una velocità maggiore rispetto ad altri: se la deroga è stata pensata, come si legge sul sito del Parlamento europeo, per «questioni come dati sanitari sensibili, operazioni chirurgiche da remoto, auto senza pilota e antiterrorismo», gli attivisti ne contestano l’ampiezza della definizione perché farebbe rientrare dalla finestra tutto ciò che si voleva eliminare.

E poi c’era la questione dello «zero rating», cioè l’accesso a siti o app (i social network in particolare) senza dispendio di giga che le compagnie di telefonia possono offrire agli utenti. Anche in questo caso – era la tesi degli attivisti digitali – si creava un’Internet a due livelli, perché le aziende più grandi erano incoraggiate a pagare di più per lo zero rating, ostacolando così l’ingresso di nuovi servizi competitivi. 

Su quest’ultimo punto si è mossa nel 2020 la Corte di Giustizia dell’Ue, che ha stabilito che offerte di questo genere violano il principio della net neutrality e pertanto possono essere proibite alla luce del regolamento 2120 del 2015. E nel 2022 anche il Berec, l’organismo dei regolatori europei delle comunicazioni elettroniche, ha aggiornato le proprie linee guida, sancendo l’obbligo generale di trattare tutto il traffico allo stesso modo.

12 gennaio 2025

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