Dal petrolio alle rinnovabili: Russia e Stati Uniti tra passato e futuro

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di Giuseppe Lai

Sotto la presidenza Biden gli Stati Uniti hanno raggiunto il loro picco storico di produzione petrolifera, pari a circa 14 milioni di barili al giorno, diventando il primo produttore mondiale di greggio e superando sia l’Arabia Saudita che la Russia. Quest’ultima, sotto il peso delle sanzioni occidentali, ha da tempo attivato nuovi canali di sbocco dei combustibili fossili per compensare le perdite e proseguire le vecchie logiche dettate dal capitalismo di Stato.
Appare evidente che la politica russa e quella americana non fanno intravedere una discontinuità netta rispetto alle energy policies del passato. Negli Stati Uniti, la seconda amministrazione Trump è intenzionata ad aumentare la produzione petrolifera e lo slogan “drill baby drill” (trivella, ragazzo, trivella) usata dal neopresidente in campagna elettorale, potrebbe trovare concreta attuazione. Innanzitutto attraverso norme meno stringenti sul fracking e lo shale oil, i sistemi di estrazione del greggio da rocce e sabbie bituminose, che ha permesso agli USA di raggiungere il primato mondiale nella produzione di petrolio. In secondo luogo, mediante una deregulation dell’E.P.A., l’agenzia americana per la protezione ambientale, che impone standard rigorosi per la riduzione di CO2 e altri inquinanti atmosferici.
C’è tuttavia un fattore in controtendenza rispetto al progetto trumpiano: le previsioni nel lungo termine di una riduzione della domanda di greggio. Il calo della domanda potrebbe indurre i produttori a non aumentare in modo significativo l’offerta temendo una discesa eccessiva dei prezzi. Le compagnie petrolifere pertanto, ritenendo prioritarie redditività e utili per gli azionisti, manterrebbero lo status quo produttivo, nonostante le maggiori opportunità di trivellazioni promesse da Trump. Se invece l’esito di questa dinamica domanda-offerta fosse in prospettiva una riduzione dei prezzi di petrolio e benzina, sarebbe indubbiamente un successo per il presidente statunitense poiché darebbe un contributo a ridurre l’inflazione, uno dei temi cruciali della sua campagna elettorale. Paradossalmente una spinta contraria verso un rialzo dei prezzi può arrivare da un’altra promessa elettorale di Trump, la riduzione delle tasse. Maggior potere d’acquisto per famiglie e imprese significa più domanda di beni e servizi e questo può incoraggiare dinamiche inflazionistiche. In altri termini, le due promesse di aumento delle attività estrattive e di sgravi fiscali devono fare i conti con le logiche di mercato, in grado di ridimensionare se non invertire le aspettative del governo. Sul fronte della green transition, Trump intende allentare le normative ambientali e uscire dagli accordi di Parigi, come già accaduto nel suo primo mandato presidenziale. Sotto questo aspetto, anche considerando lo scenario peggiore dell’abrogazione dell’I.R.A. (Inflaction Reduction Act) proposto da Biden, le probabilità di una sua attuazione sarebbero molto scarse. Basti pensare che la maggior parte dei benefici per l’energia pulita previsti dall’I.R.A., che Trump vorrebbe cancellare, è andata agli Stati repubblicani e a quelli in bilico, dove molti leader hanno dichiarato che sosterranno i progetti green. Molti di questi Stati infatti, godono di una posizione geografica che offre loro importanti potenzialità di sviluppo nell’eolico e nel solare. Un caso emblematico è rappresentato dal Texas, storicamente noto per la ricchezza di combustibili fossili a basso costo. Alla fine del 2024, secondo il Financial Times, lo Stato a guida repubblicana avrà installato più pannelli fotovoltaici rispetto a qualunque paese al mondo. E’ una questione di mercato: se produrre elettricità con le rinnovabili costa meno rispetto al fossile, si darà priorità agli investimenti in tecnologie verdi piuttosto che in nuove attività estrattive. Per quanto riguarda la Federazione Russa, per comprenderne le strategie in campo energetico è utile tornare indietro di qualche anno. Nel 2018 gli idrocarburi hanno fornito il 46% delle entrate del bilancio federale, il 65% delle entrate totali delle esportazioni e costituivano il 25% del PIL russo. Le cifre evidenziano il ruolo strategico delle grandi aziende di Stato del settore energetico, Gazprom in testa. Esse operano nei mercati internazionali con l’obbiettivo di massimizzare i profitti e garantire ampi introiti al bilancio statale e ai pochi oligarchi fedelissimi al governo. Al riguardo, è di poche settimane fa la notizia pubblicata sul Wall Street Journal di un piano di Mosca per fondere le sue più grandi compagnie petrolifere in un unico campione nazionale, con un’aggregazione che consentirebbe a Vladimir Putin di rafforzare la sua posizione sui mercati energetici globali e dare fiato all’economia russa in tempo di guerra. La fusione riguarda il gigante sostenuto dallo Stato, Rosneft Oil, che assorbirebbe il produttore statale Gazprom Neft, una sussidiaria dell’esportatore di gas naturale Gazprom, e la privata Lukoil. Pur non rivestendo carattere di ufficialità, la notizia non va in controtendenza rispetto all’ambizione del Presidente russo di mobilitare l’industria di settore per sostenere le operazioni militari in Ucraina. Un colosso energetico in grado di competere con l’Arabia Saudita nei mercati internazionali si rivelerebbe strategico per la Russia e in perfetta sintonia con l’esigenza di Putin di incrementare le risorse finanziarie del Paese. E sarebbe un’ulteriore tessera del puzzle che il presidente russo ha cominciato a costruire nel post-embargo, con l’azione di aggiramento delle sanzioni.
Nel merito alcuni mesi fa il Centre for Research on Energy and Clean Air (Crea) e il Center for the Study of Democracy (Csd) hanno pubblicato uno studio che conferma il coinvolgimento della Turchia nell’esportazione di petrolio russo. Il greggio verrebbe sottoposto a una sorta di “triangolazione”: dalla Russia viene esportato in Turchia e stoccato in alcuni porti del Paese, dove viene etichettato e poi rivenduto come ”petrolio turco” in Europa. Un’operazione che, nel 2023, ha reso Ankara il maggior acquirente mondiale di petrolio russo, alimentando non pochi sospetti. Dal febbraio 2023 al febbraio 2024, infatti, la Turchia ha importato 17,6 miliardi di euro di prodotti petroliferi russi, con un aumento del 105% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Eppure, nello stesso periodo, il consumo interno di prodotti petroliferi in Turchia è cresciuto di appena l’8%, segno evidente che la maggior parte degli idrocarburi di Mosca aveva seguito altre strade. Niente di illegale in tutto questo. Si tratta di una scappatoia resa possibile da una clausola di Bruxelles che permette l’ingresso nell’Ue di carburanti etichettati come “non russi”. In tal modo l’Europa avrebbe continuato ad importare indirettamente grandi quantitativi di prodotti petroliferi russi nonostante le sanzioni, palesando un disallineamento tra vincoli politici e necessità economica di acquistare petrolio a prezzi competitivi.
Mosca al tempo stesso incentiva le politiche estrattive dai giacimenti fossili del sottosuolo, ricchi di gas e petrolio, in vista di nuovi sbocchi commerciali. Sarebbe logico ritenere che questo espansionismo commerciale di Putin abbia come determinante fondamentale il deficit del bilancio federale indotto dalla guerra in atto. Va in realtà inquadrato all’interno di una ideologia storicamente radicata, di una mentalità che ha permeato lo Stato dall’epoca degli zar ad oggi. La Russia è, in un certo senso, “condannata” all’espansionismo da una serie di fattori. Tra questi, l’assenza di barriere geografiche ben definite, che nei secoli ha costretto il Paese a difendersi dalle invasioni reali e potenziali attraverso l’allargamento progressivo dei propri confini, per tenere il nemico più distante possibile. Un secondo fattore è l’estensione della supremazia sui territori limitrofi liberi o gestiti da poteri locali ritenuti più deboli rispetto all’invasore russo. Una logica accentratrice, che risponde al timore che altri possano annettersi quegli stessi territori. Questi due elementi geopolitici concorrono a definire i contorni di un “destino storico” dell’imperialismo putiniano. In una linea di sostanziale continuità con i suoi predecessori, il mondo è visto da Putin come un’arena di intensa competizione in cui la missione suprema del governo è difendere i propri interessi nazionali ed estendere oltre confine la propria sfera di influenza.
La politica energetica russa è una delle tante diramazioni di questa visione. Ridurre l’impiego di fonti fossili, azione cardine contro il climate change, significa per Mosca il tentativo dell’Occidente di indebolire l’export di materie prime e quindi il suo ruolo geopolitico sullo scacchiere internazionale. Questo spiega la posizione contraria della Russia ai progetti ambiziosi di transizione verde. Vladimir Putin si è espresso più volte contro la teoria del fattore antropico come causa del cambiamento climatico, proprio riguardo alla combustione di materiali fossili. Non sorprende che il mercato delle energie rinnovabili in Russia, rispetto ad altre potenze, sia profondamente arretrato. Secondo l’ultimo Rapporto 2024 dell’Associazione Russa per lo Sviluppo delle Energie Rinnovabili la capacità totale di energia verde installata nel territorio russo è pari a 6,18 GW (contro 46,5 GW in Francia e 46,32 GW in Italia). Il fotovoltaico e l’eolico rappresentano appena lo 0,80% dell’energia prodotta e l’1,12% dell’energia consumata.
A fronte di un’esigenza planetaria verso la transizione ecologica per il contrasto al climate change, la politica globale è ancora molto lontana da una traiettoria condivisa per combattere le emissioni inquinanti. Negli Stati Uniti con la rielezione di Trump si consolida una politica energetica fondata sul fossile, determinante per la crescita registrata dal settore ma di ostacolo alla transizione verde. Molti Stati americani tuttavia hanno avviato progetti ambiziosi in tecnologie green creando uno slancio verso un’economia sostenibile in grado di competere con scelte politiche ormai obsolete. In tale contesto le dinamiche dei mercati potrebbero costituire la forza trainante per cambiare rotta nell’azione per il clima. In Russia, l’ostacolo delle sanzioni, in parte aggirato da Putin con sbocchi commerciali alternativi, ha causato restrizioni di bilancio che hanno dato ulteriore impulso all’export di idrocarburi fossili, la principale entrata finanziaria dello Stato e strumento essenziale di strategia geopolitica. Ciò rende improbabile uno scenario di cambiamento della politica climatica russa per i prossimi anni.

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