Topi nello spazio, ecco come è nata SpaceX di Elon Musk

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È il 28 giugno del 2001 quando Musk subisce quello che per lui è un colpo durissimo: compie trent’anni. A Justine Wilson, scrittrice e sua prima moglie, quel giorno confida di non sentirsi più «un bambino prodigio». Scherza solo a metà, e la sua malinconia è in parte giustificabile. Lo stesso mese, infatti, X.com, il progetto di online banking da lui fondato nel marzo di due anni prima, diventa ufficialmente PayPal, ricordandogli che l’azienda gli è stata strappata di mano da un golpe messo a segno dalla autodefinitasi «PayPal Mafia», un gruppo molto compatto composto, fra gli altri, dagli amici Peter Thiel e Max Levchin. Musk riacquisterà il dominio X.com vent’anni dopo, re‑indirizzandone il traffico a Twitter, già di suo possesso. Era successa la stessa cosa già ai tempi della sua prima impresa, la Global Link, diventata Zip2 nel 1996 per l’investimento di tre milioni di dollari da parte della Mohr Davidow Ventures, che di fatto aveva scalzato Musk dal ruolo di amministratore delegato. Al suo trentesimo compleanno sono questi i pensieri di Musk: la vita delle startup – «come mangiare vetro e scrutare nell’abisso»  –  comincia a sembrargli insopportabile, così come la Silicon Valley, dove gli imprenditori non fanno che parlare di acquisizioni e guadagni. Appena dopo l’estromissione da PayPal, il ragazzo venuto dal Sudafrica torna a riflettere sulla sua vocazione: è convinto che l’obiettivo di un imprenditore debba andare al di là dei fatturati. Come il giovane Michael Collins decenni prima, Musk si sente destinato a qualcosa «che duri nel tempo», qualcosa di diverso da un semplice servizio internet. Qualcosa di più alto, letteralmente. Qualcosa come lo Spazio, quello che da bambino solcava fantasticando di razzi e astronavi, quello in cui aveva ambientato il suo primo videogame, Blastar, programmato su un ibm pc/xt quando aveva tredici anni e venduto per 500 dollari alla rivista Pc and Office Technology. Se non fosse che quel tredicenne non c’è più, e per un trentenne con un patrimonio personale di oltre 200 milioni di dollari e la mentalità di Musk un sogno equivale all’azione. In pochi mesi si trasferisce a Los Angeles, patria dell’aerospaziale americano e arena dei protagonisti del settore, da Lockheed Martin a Boeing, fino alla Nasa. Per farsi notare fa un paio di donazioni alla Mars Society, un gruppo che promuove l’esplorazione e la colonizzazione del Pianeta Rosso. Con 5000 dollari prima e 100mila poco dopo, finanzia la costruzione di un centro di ricerca nel deserto. Conquistata l’altrui fiducia, alza la posta. Sa che la Mars Society vorrebbe spedire in orbita terrestre bassa un gruppo di topi a scopo dimostrativo. Lui, i topi, pensa bisognerebbe spedirli direttamente su Marte. Le battute sul formaggio spaziale che cominciano a girare sul suo conto non lo toccano. Per Musk l’esplorazione del cosmo è uno dei compiti della nostra specie, cui sarebbe irresponsabile abdicare. Quando scopre che la Nasa non ha un piano per raggiungere le lande marziane si convince di trovarsi su questo pianeta per portare l’umanità su un altro.

DA MARS OASIS A SPACEX

Serve, tuttavia, un’idea clamorosa per stupire l’opinione pubblica, un gesto che spinga tutti a pensare di nuovo a Marte e a riflettere sul reale potenziale dell’umanità. È qui che il sogno si evolve nel progetto. Nasce Mars oasis: con un razzo acquistato dai russi (gli unici ad averne alla portata di un ristretto budget privato), Musk e il suo nuovo team – che comprende Michael Douglas Griffin, futuro amministratore della Nasa – puntano a lanciare un laboratorio «vivente», una camera di crescita fitologica in cui coltivare piante sulla superficie marziana. Quando dopo snervanti appuntamenti con la npo Lavochkin, un’azienda che aveva già costruito sonde destinate a Marte e Venere per l’agenzia russa Roscosmos, Musk si rende conto che i suoi propositi non sono presi sul serio, decide di stravolgere il settore. Aveva capito che, sprovviste di una vera concorrenza, le industrie aerospaziali costruivano prodotti costosi e dalle prestazioni perfette: ogni lancio era eseguito in Ferrari, quand’anche sarebbe bastata un’utilitaria. Musk pensa diversamente: avrebbe applicato alla Space economy l’approccio al rischio e allo sviluppo dei programmi tipico della Silicon Valley, aggiungendoci gli straordinari progressi in capacità di calcolo dei computer e l’avanguardia della scienza dei materiali. Il suo approccio, presto noto come «Spazio reattivo», avrebbe scardinato un modello industriale immutato dagli anni sessanta: una stasi impensabile per Musk, anzi un peccato originale, capace di bloccare lo sviluppo di un settore, e forse dell’umanità tutta, per quasi mezzo secolo. Nel giugno del 2002, in un vecchio magazzino in affitto al 1310 di East Grand Avenue a El Segundo, sobborgo di Los Angeles, Musk dà vita alla Space Exploration Technologies. All’inizio la chiama set, ma impiega poco per passare a un nome più facile da ricordare e, soprattutto, con la sua lettera preferita in risalto: il mondo comincia a sentir parlare di SpaceX. Nelle intenzioni del fondatore, SpaceX avrebbe evitato gli sprechi degli appaltatori governativi, e avrebbe chiamato il suo primo razzo Falcon 1, in omaggio alla celebre astronave di Han Solo della saga di Star Wars, portando in orbita, entro la fine dell’anno successivo, un carico di 635 chilogrammi a un prezzo di 6,9 milioni di dollari, in un mercato in cui lanciare 250 chili costava almeno 30 milioni. Secondo lui basterà mettere in discussione qualsiasi requisito imposto dagli stringenti protocolli della Nasa o delle Forze Armate, costruire in proprio anziché comprare da altri e avere fede nel metodo muskiano: fai in fretta, fai esplodere tutto, ricomincia. Quello che al momento di impostare questa scaletta Musk ancora non sa, però, è che nello Spazio nessun obiettivo è facile da raggiungere.

LO SCHIAFFO DELLA REALTÀ

«SpaceX è impegnata per il lungo periodo e ci riusciremo, acada quel che accada.» Finisce così la lettera pubblica con cui Musk commenta il fallimento del primo lancio del Falcon 1, il 24 marzo 2006. Venticinque secondi dopo essersi staccato dalla rampa sull’isola di Kwajalein, la più grande di un atollo fra Guam e le Hawaii, il motore Merlin del Falcon aveva preso fuoco, facendo precipitare il razzo. Il satellite che trasportava era caduto, più o meno intatto, direttamente dentro il laboratorio di SpaceX, sfondandone il tetto. Quasi un anno dopo, il 21 marzo 2007, è lo sciabordio del propellente nel secondo stadio – l’undicesimo principale fattore di rischio nella lista dei quindici stilata dai tecnici – a portare il nuovo Falcon 1 fuori traiettoria fino a farlo esplodere solo cinque minuti dopo il decollo. Musk, in risposta, impone che la lista delle criticità sia presa in considerazione fino all’undicesimo punto. Ma ciò non basta a evitare il fallimento del lancio successivo. Il 2 agosto 2008, dopo un decollo inizialmente riuscito, durante la ricaduta verso Terra, un ritorno di fiamma spinge il primo stadio del Falcon contro il secondo, facendoli precipitare entrambi con il loro prezioso carico: un satellite dell’Aeronautica militare da 90 chili, due satelliti più piccoli della Nasa e le ceneri di James Doohan, l’attore che aveva interpretato Scotty in Star Trek. Quanto di lui rimasto sarebbe comunque volato nello Spazio qualche anno dopo, su un Falcon 9. «Ce la faremo. Andrà tutto bene. Non abbiate paura» rassicura Musk. Le sue parole hanno l’effetto di un tonico, soprattutto perché il suo staff sa quanto possa essere spietato in caso di imprevisti. Era stata questa sua severità ad aver portato, nel 2007, all’abbandono di SpaceX da parte di Jeremy Hollman, luogotenente del progettista capo, Tom Mueller.

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Quello che invece lo staff di Musk non sa è che il fondatore è sull’orlo della bancarotta (e del divorzio da Justine Wilson, con cui frattanto ha avuto cinque figli più un altro, Nevada, morto ad appena dieci settimane). In sei anni Musk ha riversato nella sua azienda un centinaio di milioni di dollari ed esaurito i fondi messi da parte, sufficienti per finanziare tre lanci. Come non bastasse, anche l’altra sua società, la Tesla, specializzata nella produzione di automobili elettriche, sta attraversando una grave crisi finanziaria, tenuta a bada non senza operazioni al limite della legalità (all’inizio del 2008, per esempio, Musk copre le spese attingendo agli anticipi versati dai clienti per autovetture Roadster non ancora costruite). Per qualche ora, il 2 agosto 2008, SpaceX sembra finita. Poi si sparge una voce, confermata con un annuncio ufficiale il giorno dopo, di un finanziamento inaspettato da venti milioni di dollari. I soldi arrivano dal Founders Fund, il gruppo di Peter Thiel, Ken Howery e Luke Nosek, gli stessi che avevano fondato PayPal con Musk e poi, otto anni prima, l’avevano estromesso senza troppi complimenti dal ruolo di amministratore delegato. «Una strana manifestazione del karma» butta lì Musk. Il quale, tipico del suo stile, mentre alcuni progettisti lavorano al quarto e a quel punto decisivo lancio, incarica un altro gruppo di sviluppare il Falcon 9, un razzo a nove motori che al posto del Falcon 5, secondo lui dovrebbe sostituire lo Space Shuttle, in dismissione. SpaceX non ha ancora raggiunto lo Spazio, ma Musk la prepara già a quelli che è convinto un domani saranno i grandi appalti della Nasa. Non solo: si rivolge alla Barber‑Nichols, un produttore di turbopompe del Colorado, chiedendo supporto nello sviluppo del razzo più grande della storia, il Big Falcon Rocket (o bfr, che dopo numerosi cambi di nome diventerà il Super Heavy), quello completamente riutilizzabile che nella sua testa porterà l’umanità, insieme con la navicella Starship, a sbarcare su Marte entro una ventina d’anni, trenta al massimo.



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