la mission impossible su Cecilia Sala

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La premier a Mar-a-Lago è stata accolta con tutti gli onori, ma ha «premuto in modo aggressivo» (secondo il New York Times) sul caso. Per ottenere cosa? La rinuncia all’estradizione di Abedini? Le affinità fra i leader sovranisti e gli interessi nazionali divergenti sull’ingegnere detenuto in Italia

L’improvvisata visita di Giorgia Meloni a Donald Trump nella tenuta di Mar-a-Lago ha violato la cortesia diplomatica che avrebbe voluto che attendesse l’imminente giro di saluti di Joe Biden a Roma – presidente in carica con cui la premier aveva intessuto un ottimo rapporto – e non era stata preparata, visto che il presidente eletto e mezzo futuro governo riunito in Florida avevano altri programmi per la serata, nella quale Meloni si è inserita pur con tutti gli onori e gli elogi del caso.

«È davvero emozionante, sono qui con una donna fantastica, il primo ministro italiano. Ha preso d’assalto l’Europa, e tutti gli altri, e stasera ceneremo insieme», ha detto Trump accogliendola, e lasciando poi che le cose procedessero come previsto: la serata prevedeva infatti la visione in anteprima del documentario The Eastman Dilemma, storia infarcita di complotti su un legale di Trump che ha lottato per tentare di non certificare l’elezione di Biden nel 2020. Il film non a caso esce nella data fatale del 6 gennaio.

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Ragione urgente

Le circostanze della missione mostrano dunque che la presidente del Consiglio era lì per una ragione urgente e straordinaria, quella di discutere (oltre che dell’effetto dei possibili dazi e della guerra in Ucraina) della situazione che lega la giornalista Cecilia Sala, imprigionata senza accuse in Iran, e Mohammad Abedini, l’ingegnere iraniano-statunitense detenuto in Italia su richiesta degli Stati Uniti per avere trafficato componenti militari aggirando le sanzioni.

L’ambasciata iraniana a Roma ha chiarito ufficialmente che i due casi sono strettamente collegati, circostanza che è stata letta come un’apertura a uno scambio di prigionieri. Ma è uno scambio che la Casa Bianca non vuole fare, per vari ordini di ragioni.

Da qui il tentativo di Meloni di mettere in campo le sue riconosciute abilità relazionali, facendo leva sul rapporto costruito con Elon Musk (e il suo referente italiano Andrea Stroppa), per intavolare una discussione sulla complicata vicenda. Nel racconto del blitz meloniano i media hanno comprensibilmente messo l’accento sul passaggio dell’articolo del New York Times che, citando una fonte che ha assistito al dialogo fra i leader, ha scritto che Meloni «ha premuto in modo aggressivo» sul caso.

Ma premuto in modo aggressivo per chiedere cosa? Questo il New York Times non lo specifica, ma si può dedurre che la richiesta a Trump sia di rinunciare all’estradizione, o almeno di concedere all’Italia spazio di manovra per negoziare sul rilascio di Sala.

Il dipartimento di Giustizia ha già dichiarato che sta lavorando per avere Abedini in America e benché il ministro della Giustizia italiano, Carlo Nordio, abbia la facoltà di rifiutare la richiesta, si tratterebbe di uno strappo diplomatico estremo con il principale alleato dell’Italia, che sotto la guida di Trump si appresta a essere anche allineato dal punto di vista politico.

La Casa Bianca ha tempo fino al 30 gennaio per rivedere la richiesta, e nel frattempo la Corte d’Appello di Milano deciderà – il 15 gennaio – se concedere gli arresti domiciliari, ipotesi su cui la procura di Milano ha dato parere negativo, dato il rischio di fuga. Sulla decisione pesa, soprattutto per gli americani, la vicenda di Artem Uss, trafficante di armi e figlio di un oligarca vicino a Vladimir Putin, che le autorità italiane si sono fatte sfuggire mentre era ai domiciliari.

Ci sono poi alcuni casi analoghi in cui la scarcerazione è stata negata, e sarebbe complicato concedere ad Abedini un trattamento di favore, se non nell’ambito di un accordo politico per favorire un negoziato. Qualunque sia stata la richiesta di Meloni nel dialogo con Trump, va tenuto presente che gli Stati Uniti vogliono Abedini perché è accusato di avere fornito al regime una tecnologia militare che è stata usata anche in un attacco che qualche mese fa ha ucciso tre soldati americani in Giordania.

Dopo l’arresto, il procuratore generale, Merrick Garland, ha detto che chi «permette al regime di continuare a mettere nel mirino e uccidere americani e a minacciare la sicurezza nazionale degli Stati Uniti» pagherà per questo. L’entrante amministrazione repubblicana modificherà questa impostazione? Promette di essere più morbida, nell’ottica negoziale, su chi dà armi al regime per uccidere soldati americani? Tutto il contrario.

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Trump ha promesso massima durezza sul regime, ha annunciato sanzioni più dure e non esclude attacchi mirati per impedire che gli ayatollah si dotino di armi nucleari. Durante il primo mandato ha fatto saltare l’accordo nucleare negoziato da Barack Obama – troppo permissivo – e ha ucciso il generale Qassem Suleimani, faccenda che il vendicativo regime di Teheran non ha mai dimenticato. E ora l’ostilità è acuita dal ruolo dell’Iran nel conflitto mediorientale, dove Trump sostiene senza riserve l’alleato Benjamin Netanyahu.

Interessi divergenti

Nella nuova squadra di governo la parte del falco anti iraniano spetta a Marco Rubio, nominato come segretario di Stato, che giusto qualche mese fa diceva che lo scopo dell’Iran in Medio Oriente è niente meno che «tentare di cacciare gli Stati Uniti dalla regione e distruggere Israele». La clemenza verso chi collabora con un regime del genere non è il tipo di segnale che l’amministrazione vuole dare. Rubio era a Mar-a-Lago quando è arrivata Meloni e pubblicamente si è limitato a definire la premier «una grande alleata, una leader forte».

Ma la presidente del Consiglio si trova in una posizione complicata nel dialogo con la squadre del presidente eletto. Da una parte, gode di ampio credito, perché è considerata l’interlocutrice privilegiata in un’Europa a corto di leader e che Trump vorrebbe sempre meno dipendente dall’assistenza americana; dall’altra, l’interesse nazionale, che è la stella polare per Meloni – che in questo caso significa liberare una cittadina italiana ingiustamente detenuta – in questo caso è in tensione con quello americano, che deve dimostrare la linea dura contro l’Iran.

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