Se Luna Rossa non si è qualificata per l’America’s Cup la “colpa” è anche sua. L’ingegnere Alberto Taraborrelli, 32enne di Francavilla al Mare, è la mente di Ineos Britannia che ha eliminato la barca italiana vincendo la Louis Vuitton Cup (7 regate a 4) e conquistando la possibilità di sfidare New Zealand nella Coppa America (poi vinta dai neozelandesi). Laureato in ingegneria meccanica al Politecnico di Milano, indirizzo meccatronica e robotica, prima di passare alla vela Taraborrelli ha lavorato in Formula Uno nella Mercedes-Amg Petronas F1 Team nel periodo dei grandi successi con Lewis Hamilton 2 volte campione del mondo e, in seguito, nell’Alpine F1 Team (ex Renault) accanto a Fernando Alonso, occupandosi del software di bordo.
Taraborrelli, come è finito nel mondo della vela?
«Ineos è partner commerciale di Mercedes Formula Uno e Team di Coppa America. Dopo aver lavorato 5 anni in F1 sono stato chiamato dal mio ex capo della Mercedes che mi ha proposto un incarico nel team Britannia. Inizialmente ero titubante, lui ha insistito e alla fine ho accettato trasferendomi dall’Inghilterra a Maiorca, dove venivano svolti i test della durata di undici mesi, poi a Barcellona, sede della America’s Cup, per un anno e mezzo».
Di cosa si occupava?
«Ho elaborato una parte del software che gestiva la barca test, poi sono stato responsabile di tutti i sistemi di bordo: vele, elettronica, meccanica, idraulica».
All’inizio non eravate velocissimi, poi siete cresciuti e avete sconfitto Luna Rossa.
«Abbiamo lavorato duramente per rendere la barca più veloce e affidabile. Limiti di Luna Rossa? Forse le partenze erano un po’ prevedibili, però restano tra i migliori al mondo».
Come nasce la passione per l’ingegneria?
«È innata, penso di avere iniziato a montare e smontare prima di camminare. Mia madre racconta che inizialmente smontavo gli aspirapolvere, poi sono passato ai Lego, dai più facili ai più difficili, fino a quando a Natale non è arrivato il regalo che probabilmente avevo sempre sognato: la macchinina telecomandata a scoppio. Da quel giorno la passione è diventata irresistibile. Quando avevo 14 anni quasi tutti i miei amici avevano lo scooter, io no perché i miei genitori avevano paura. Allora mi divertivo modificando i motorini degli amici, li rendevo più performanti senza farmi pagare (ride, ndr). Lo stesso facevo quando è arrivato il mio motorino, un vecchio Zip, una specie di rottame che ho trasformato in bolide. L’accordo con mamma e papà prevedeva l’utilizzo esclusivo in pista, non potevo girare in strada con lo scooter, ho fatto anche qualche gara con il team Passeri. Ma la mia vera passione era ed è un’altra».
Di cosa parla?
«Il tornio. Avevo 10-11 anni quando mia madre mi chiedeva: “dove vuoi andare oggi”? Le rispondevo: “da Obi nel reparto delle macchine utensili”. Ho sempre desiderato diventare un tornitore e quando ho terminato il Liceo scientifico l’ho detto ai miei genitori. Per fortuna sono riusciti a dissuadermi e a spingermi verso il percorso universitario. La passione, tuttavia, è rimasta e se resterò a vivere qui la prima cosa che comprerò sarà il tornio, di sicuro prima di un’auto».
Dal Liceo “Galilei” di Pescara al Politecnico di Milano. Come è cambiata la sua vita?
«Sono andato a vivere in una metropoli, ma non ho trascurato i miei hobby. Da ragazzo ho sempre giocato a pallanuoto, nella Simply Sport Pescara, e a Milano ho continuato. Sono stato capitano della squadra dell’università per 4 anni. In seguito mi sono trasferito in Inghilterra e lì sono cambiate le mie abitudini. Ho praticato il triathlon partecipando a tre edizioni di Ironman, lo sport mi ha tenuto in vita in un posto non proprio divertente. Ho sofferto il clima di Brackley, un piccolo paesino che offriva poco, pensavo solo al lavoro. Sul cibo meglio sorvolare, per fortuna quando arrivava mamma con le sue prelibatezze la dispensa si riempiva e tornava il sorriso. Comunque sia, in Inghilterra sono cresciuto molto a livello professionale».
L’università cosa le ha lasciato?
«Il ricordo più bello riguarda il Dynamis Prc, team di Formula Student in cui sono entrato alla fine del primo anno come motorista. Eravamo in 12 e quando sono andato via dopo la laurea eravamo in 80. Nell’ultimo anno sono stato direttore tecnico del team che ha costruito la DP8, la macchina portata in gara nei successivi due anni. Progettavo e realizzavo componenti, utilizzavo il tornio e la fresa, era tutto emozionante. L’esperienza ha colmato il limite delle nostre università. Si dice che a livello teorico quelle italiane siano le migliori, purtroppo manca la parte pratica. È tutto vero, ve lo assicuro. Formula Student mi ha reso un appassionato di elettronica e ha indirizzato le mie successive scelte. La consiglio a tutti gli studenti».
Cosa ha in mente per il futuro?
«Ora mi godo un po’ di riposo, tra qualche settimana prenderò una decisione. Mi piacerebbe restare in Italia o, ancora meglio, in Abruzzo. Qui dovrei reinventarmi, ma l’eventualità non mi spaventa. Mi piacciono le nuove sfide, altrimenti rischio di annoiarmi».
Papà Raimondo, imprenditore, e mamma Raffaella, psicologa, cosa pensano?
«Li ho sempre coinvolti nelle scelte, anche se alla fine spesso ho fatto di testa mia. Non smetterò mai di ringraziarli per gli insegnamenti e la fiducia che mi hanno sempre trasmesso. L’Abruzzo ha potenzialità enormi e purtroppo inespresse. Mi fa ridere chi dice: “cosa torni a fare”? Se non siamo noi giovani i primi a crederci non cambierà mai nulla. Negli Stati Uniti a un giovane con idee interessanti direbbero: “vieni qui, ti diamo noi i soldi per realizzare i tuoi progetti”. Perché non dovremmo farlo anche in Italia che ha risorse infinite? Nel mio piccolo ce la metterò tutta per cambiare la mentalità, serve uno sforzo di squadra».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link