Auto, la crisi che dura da dieci anni: perché in un mondo diviso la ricetta di Marchionne non funziona più

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di
Francesco Bertolino

Elettrica o benzina, prodotta in loco o importata, a basso costo oppure senza componenti cinesi: fare auto è sempre più complesso e per le case aggregarsi in gruppi più grandi potrebbe non bastare

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Una macchina a benzina, una elettrica, una ibrida. Un suv per l’Europa, un pick-up per gli Stati Uniti, una berlina per il Sud America. Una vettura assemblata in loco, una senza componenti cinesi, una con pezzi di qualsiasi provenienza, purché economici. Costruire auto è sempre stato un mestiere complesso. Oggi, però, districarsi nel dedalo delle preferenze dei clienti, delle normative e delle barriere doganali sta diventando quanto mai difficile. E oneroso. 

La doppia offerta

«Il problema dell’industria dell’auto non è la domanda che, seppur più lentamente, resta in aumento: siamo ancora significativamente al di sotto dei volumi pre-Covid, è vero, ma quest’anno la Cina è cresciuta del 2%, gli Stati Uniti e l’Europa dell’1%», spiega Davide Di Domenico, Managing Director e Senior Partner BCG e System Leader dell’area Est Mediterraneo e dei Caspi . «Il problema è che, a fronte di una domanda più o meno stabile, le case lavorano spesso su una doppia offerta: una con i motori a combustione, una con l’elettrico», aggiunge. «Questo significa che per le case le spese si moltiplicano; se progettare, sviluppare e produrre una vettura costa di norma due miliardi, oggi possono servirne quattro per rispondere alle diverse richieste dei clienti e dei regolatori».




















































La crisi europea

Dopo quattro anni di profitti e dividendi record — solo agli azionisti di Stellantis sono toccati oltre 17 miliardi — oggi l’industria dell’auto europea si trova in grave difficoltà. Tanto che Volkswagen è arrivata a minacciare di chiudere una o più fabbriche in Germania per la prima volta nella sua storia, salvo poi accordarsi con i sindacati per un più «morbido» taglio alla capacità produttiva. «I costruttori europei si trovano stretti nella morsa delle due superpotenze», osserva Di Domenico. «Per anni riserva di profittabilità per molte case, il mercato cinese si sta chiudendo di pari passo con la transizione elettrica e sarà sempre più appannaggio dei gruppi locali, con una svolta protezionistica che pare irreversibile». 

La muraglia cinese

Si stima che la produzione delle case automobilistiche tradizionali in Cina possa subire una contrazione da 15 a 5 milioni di veicoli, a fronte della crescita dei costruttori locali. Questo potrebbe portare una perdita dei profitti tra il 10 e il 50% per le aziende dell’auto europee e statunitensi, a seconda del grado di esposizione al mercato cinese. «Nel mercato nordamericano la traiettoria di ripresa dipenderà dalle politiche che adotterà la nuova amministrazione di Donald Trump», prosegue. Ancor prima di entrare in carica, infatti, il nuovo inquilino della Casa Bianca ha minacciato dazi a raffica sulle importazioni: dal Messico, dal Canada, dall’Europa. «Se Trump vorrà favorire le auto prodotte negli Usa, le case europee potrebbero aumentare gli investimenti per localizzare sul suolo americano l’assemblaggio finale», prevede Giuseppe Collino, managing director e partner di Bcg. «Se invece i dazi prenderanno di mira anche il contenuto delle vetture, per esempio vietando o penalizzando i componenti cinesi, allora la svolta sarà molto più complessa – e costosa – per tutte le case».

La strada delle aggregazioni

Questa fase di incertezza è destinata probabilmente a durare un decennio, almeno sinché nel 2035 il bando Ue a benzina e diesel non porrà autoritativamente fine al dualismo endotermico-elettrico, a favore del secondo. Cosa faranno nel frattempo i costruttori per mantenere i bilanci in carreggiata? La via maestra nell’industria dell’auto è da sempre quella del consolidamento, indicata già nel 2015 dall’allora ceo di Fiat-Chrysler, Sergio Marchionne, nel manifesto Confessioni di un drogato di capitale. Honda, Nissan e Mitsubishi potrebbero imboccarla nel 2025, se andranno in porto le loro trattative di fusione per formare il terzo gruppo dell’auto al mondo dopo Toyota e Volkswagen. Chissà che, come auspicato più volte dal ceo di Renault Luca De Meo, altri gruppi non decidano di unire le forze per condividere gli investimenti e affrontare la concorrenza degli arrembanti costruttori cinesi. 

La regionalizzazione

Basterà? «A lungo il mantra nel settore dell’auto sono state le economie di scala: aumentare le dimensioni per spalmare gli elevati costi fissi su una base di ricavi sempre più ampi e per condividere gli investimenti», ricorda Di Domenico. «Oggi non è detto che questa sia ancora la strategia vincente perché il mondo si sta dividendo: se in futuro servirà un’offerta specifica per la Cina, una per gli Stati Uniti, una per l’Europa e una per il resto del mondo, ciascuna con la sua catena di fornitura e con le sue caratteristiche regolamentari, avrà ancora senso creare giganti globali?».

Il calo della produzione in Italia

In questa nuova mappa dell’auto che dazi, transizione energetica e trasformazione tecnologica vanno ridisegnando, resta da capire quale posto ricoprirà l’Italia. Quest’anno il calo della produzione nel Paese è stato drastico. Fra gennaio e settembre, secondo il centro studi Inovev, dagli impianti italiani sono usciti circa 453 mila veicoli, fra auto passeggeri e furgoni, di cui 387.600 unità attribuibili a Stellantis (-31,7%). Il gruppo nato dalla fusione fra Fiat-Chrysler e Renault scivolerà a fine anno sotto le 500 mila unità assemblate nel Paese, un quarto rispetto agli anni ’90. L’Italia si colloca ormai al settimo posto nella classifica dei produttori europei: senza considerare la Germania, che da sempre fa gara a sé con i suoi tre costruttori, la Spagna produce ormai quattro volte di più dell’Italia, la Francia il doppio, mentre Romania e, soprattutto, Polonia si stanno avvicinando.

Gli impegni di Stellantis

Dopo il brusco addio del ceo cost-killer Carlos Tavares, però, Stellantis sembra pronta a cambiare marcia in Italia e, sotto la guida ad interim del presidente John Elkann, sta ricucendo la relazione con il governo. Il responsabile per l’Europa, Jean-Philippe Imparato, ha promesso nel 2025 due miliardi di investimenti e sei miliardi di acquisti dai fornitori italiani, preannunciando un rilancio del 50% della produzione nel 2026. Impegni sul cui rispetto, dopo tanta cassa integrazione, i sindacati vigileranno con attenzione. «Il sistema produttivo del Paese sconta costi dell’energia più elevati che minano la competitività delle fabbriche», osserva Di Domenico. «L’Italia ha però un tessuto di fornitori molte forte, di tradizione e radicato sul territorio: i distretti della Basilicata, di Modena e del Piemonte, per esempio, sono di eccellenza». 

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Batterie e software

Nella transizione c’è quindi «un’opportunità per l’industria dell’auto italiana a patto che riesca a posizionarsi sulle produzioni a maggior valore aggiunto», conclude Di Domenico. «Serve una fabbrica di batterie attorno a cui costruire una filiera elettrica competitiva e urge investire sull’innovazione, in particolare per sviluppare i software che saranno sempre più cruciali nel distinguere un’auto all’altra e nel determinarne il successo, di pubblico ed economico».


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