Tutti gli scogli per il Governo Meloni nel 2025

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Nei sondaggi il centrodestra naviga col vento in poppa, complici anche le persistenti divisioni nel cosiddetto campo largo. Il 2025 sarà l’anno del giro di boa per il governo Meloni, che è atteso da una serie di prove impegnative sia sul piano internazionale che su quello interno. L’insediamento di Trump, fra un paio di settimane, porrà all’Italia il tema di come rinsaldare il vincolo atlantista con un inquilino della Casa Bianca che ha una visione dei conflitti e degli equilibri geopolitici internazionali completamente diversa. Il solido legame tra Meloni e Musk certamente aiuterà, ma nel concreto bisognerà capire come la politica dei dazi già annunciata da Trump andrà ad incidere sui nostri scambi commerciali.


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Sul versante europeo, l’Italia sta certamente meglio di Germania e Francia, percorse da forti spinte destabilizzatrici e dunque più deboli nell’interlocuzione con gli altri Stati. Tuttavia, la Meloni non avrà dalla sua il palcoscenico che ha avuto nel 2024, con il G7 in Puglia e i riflettori di mezzo mondo addosso, e dovrà dunque conquistarsi sul campo, volta per volta, le attenzioni internazionali.


Ma per Giorgia Meloni gli snodi più delicati riguardano soprattutto la politica interna. Fratelli d’Italia veleggia verso il 30%, che è una percentuale inferiore a quella raggiunta da Renzi dieci anni fa alle europee ma anche da Salvini e dai Cinque Stelle in anni più recenti. La scommessa dell’attuale partito di maggioranza relativa è dunque quella di consolidare la sua leadership ma senza cannibalizzare gli alleati, Lega e Forza Italia, che potrebbero non gradire e far venir meno il loro appoggio all’esecutivo. Nell’attuale Parlamento, sia il Carroccio che gli azzurri sono numericamente determinanti per la tenuta del quadro politico e dunque alla Meloni potrebbe non convenire ridimensionare ulteriormente gli alleati. L’ipotesi rimpasto, ventilata dopo l’assoluzione di Salvini nel processo Open Arms, sembra rientrata, ma prima o poi tornerà d’attualità e il premier dovrà destreggiarsi abilmente per impedire scossoni.


C’è poi il dossier nomine. Dal 21 dicembre la Corte Costituzionale ha solo 11 dei suoi 15 componenti, il minimo legale per poter deliberare. Di qui la necessità di convocare con urgenza il Parlamento in seduta comune per l’elezione dei 4 giudici mancanti. Circolano tanti nomi ma al momento non ci sarebbe ancora la quadra, cioè un’intesa bipartisan. Peraltro è attesa per il 20 gennaio la decisione della Corte sull’ammissione del referendum abrogativo del ddl sull’autonomia differenziata, primo importante tassello sulla strada delle riforme promosse dal centrodestra. La composizione della Consulta assume dunque un rilievo certamente politico, il che acuisce le tensioni tra maggioranza e opposizione sulla nomina dei 4 nuovi giudici.


L’eventuale ammissione del referendum non sarebbe di per sé decisivo, perché poi bisognerebbe verificare l’eventuale raggiungimento del quorum. Indubbiamente, però, la sinistra potrebbe cavalcare il quesito sull’abrogazione del ddl Calderoli e ricompattarsi su un obiettivo che è certamente decisivo per la stabilità governativa. Se venisse bocciata dagli elettori la riforma dell’autonomia differenziata, la Lega potrebbe anche sfilarsi dalla maggioranza e la strada delle elezioni anticipate risulterebbe pressochè inevitabile.


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Ecco perché il passaggio è molto delicato, così come delicato sarà l’iter della riforma del premierato, scritta da Francesco Saverio Marini, consigliere giuridico di Giorgia Meloni e non a caso candidato ad occupare uno dei 4 posti vacanti nella Corte Costituzionale. Il premierato è il cavallo di battaglia di Fratelli d’Italia, l’autonomia differenziata è la ragion d’essere della Lega. Le due riforme sono indissolubilmente legate ed è impensabile che ne passi solo una delle due. Il governo resta in piedi solo se passano entrambe o se vengono congelate entrambe.


Altra nomina spinosa quella del presidente della Rai. Da mesi e mesi nella governance della tv di Stato si registra uno stallo perché Forza Italia continua a puntare su Simona Agnes, che però al momento non ha i voti necessari per essere nominata. Un accordo con i Cinque Stelle su altre poltrone di compensazione potrebbe consentire di superare l’attuale impasse.


Infine le elezioni regionali, con la patata bollente chiamata “norma De Luca”. Il governatore della Regione Campania ha promosso e fatto approvare una norma regionale che gli consente di ricandidarsi per la terza volta. Il Pd però ha già detto che non sarà il suo candidato e il governo ha intenzione di sollevare la questione di incostituzionalità di quella legge dinanzi alla Corte costituzionale. Il rovescio della medaglia è che quella legge consentirebbe anche a Luca Zaia di candidarsi in Veneto e quindi una sua eventuale bocciatura costringerebbe il centrodestra a scegliere per quest’ultima regione un altro candidato, con un prevedibile braccio di ferro tra Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia per individuare un nuovo profilo.


Il 2025 sarà l’anno delle elezioni in ben sei regioni: oltre a Campania e Veneto, saranno chiamate alle urne anche Marche, Puglia, Toscana e Valle d’Aosta. Inoltre si voterà in migliaia di comuni, tra cui 16 capoluoghi di provincia. Tra i due schieramenti c’è però una differenza sostanziale: il centrodestra litiga sui candidati ma l’alleanza non è in discussione; il centrosinistra, invece, è prigioniero dei veti incrociati, ad esempio tra Renzi, Calenda e i Cinque Stelle. Ecco perché il centrodestra dovrà puntare soprattutto sulla formazione di una nuova classe dirigente, meno ancorata al passato dei post-fascisti, mentre il centrosinistra dovrà anzitutto ritrovare l’unità interna.

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