3 gennaio 2025 – Notiziario Africa

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  • Africa: 2025, l’anno che verrà
  • Repubblica Democratica del Congo: 13 soldati rischiano la pena capitale
  • Mozambico: in fuga dalla violenza post elettorale
  • Stati Uniti: l’impegno di Jimmy Carter

Questo e molto altro nel notiziario Africa, a cura di Elena L. Pasquini

“Sogno un’Africa in pace con se stessa.” “Sogno la realizzazione dell’unità dell’Africa, grazie alla quale i suoi leader uniscono i loro sforzi per risolvere i problemi di questo continente”.

Diceva Nelson Mandela.

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L’Africa si lascia alle spalle un anno turbolento: conflitti, tensioni politiche, emergenze ambientali. Nel 2025, la maggior parte delle crisi restano aperte e rischiano di esacerbarsi, ancora di più se ci voltiamo dall’altra parte.

Vi racconteremo quali sono le prospettive per l’anno che verrà. Andremo poi nella Repubblica democratica del Congo, di nuovo in Costa d’Avorio con nuovi dettagli sul ritiro dei soldati francesi, in Mozambico e negli Stati Uniti ricordano l’impegno di Jimmy Carter in Africa. Oggi, 3 gennaio 2025.

L’Africa nel 2025

L’Africa si affaccia al nuovo anno con antiche e nuove sfide, percorsa da conflitti, vulnerabile al cambiamento climatico, attraversata da tensioni politiche ma con lo sguardo sempre al futuro.

Ciò che il mondo non può permettersi è di tenere spenti i riflettori sui mutamenti in corso nel continente. Ecco cosa dovremmo tenere d’occhio nei prossimi dodici mesi secondo gli analisti.

Il Sahel, dove cresce la violenza, “con un’instabilità che si diffonde geograficamente e si evolve in natura”, spiegano i ricercatori dell’Armed Conflict Location & Event Data.

In Burkina Faso e Mali, l’intensificarsi della violenza jihadista ha condotto le forze statali ad inasprire la repressione verso la popolazione civile “nel tentativo di dissuaderla dal fornire supporto ai gruppi armati”.

I gruppi jihadisti, Jama’at Nusrat al-Islam wal-Muslimin (JNIM) affiliata ad al-Qaeda e la Provincia dello Stato Islamico del Sahel (IS Sahel), “stanno intensificando i loro sforzi di sensibilizzazione e predicazione nelle comunità, presentandosi come protettori contro le forze statali, i mercenari Wagner e le milizie filo-governative”, spiega ancora ACLED. Una tendenza particolarmente significativa, che segna un cambio di strategia, è l’intensificarsi degli attacchi ai centri urbani.

“Ciò riflette dinamiche regionali più ampie in cui la rapida urbanizzazione e l’individuazione strategica di queste aree massimizzano l’impatto degli attacchi dei militanti”, si legge nello studio.

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A cambiare è anche la tecnologia impiegata nel conflitto, con un uso sempre più massiccio di droni e armi a distanza. Nuove alleanze, poi, nelle zone di confine tra Mali e Niger – quelle tra Tuareg, Toubou e altri ribelli – stanno cambiano il quadro.

Un’instabilità destinata a far sentire sempre di più i suoi effetti nei paesi vicini, come Benin e Togo. Punti nodali, anche le aree di confine tra Niger e Nigeria. In Sahel si fa sempre più pervasiva l’influenza russa.

E i conflitti in Mali e Burkina Faso sono tra quelle crisi che il mondo non può permettersi di ignorare, secondo International Rescue Committee, insieme a Somalia, Sudan e Sud Sudan. Così, è il rischio di un’escalation nel Corno d’Africa, inclusa la mai pacificata Etiopia.

“L’assenza di una diplomazia efficace per la risoluzione dei conflitti creerà nuove opportunità per stati come Turchia e Qatar di espandere la propria influenza e di competere con i rivali regionali”, scrive il Council on Foreign Relations che indica nella regione dei Grandi Laghi un’altra delle aree che rischiano un acutizzarsi dei conflitti.

“L’ultima rottura nei colloqui guidati dall’Angola tra la Repubblica Democratica del Congo e il Ruanda solleva la possibilità che il conflitto nel Congo orientale, che continuerà a essere costoso in qualsiasi scenario, potrebbe riscaldarsi con potenziali ricadute destabilizzanti”, si legge.

Migrazioni. Le condizioni metereologiche estreme e i conflitti continuano ad essere la ragione principale per cui in Africa si fugge. Alle fine del 2024, riporta Deutsche Welle citando un rapporto dell’International Displacement Monitoring centre, erano 35 milioni gli africani rifugiati e sfollati. L’80 percento sono in soli cinque Paesi: Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Nigeria e Somalia. Una tendenza destinata a crescere.

In Nigeria si gioca una partita cruciale da tenere sotto osservazione ed è quella delle sorti della  Nigerian National Petroleum Company.

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Ne parla The Africa Report. La NNP è stata oggetto di aspre critiche per non essere stata in grado di gestire “efficacemente le raffinerie del paese, nonostante i ripetuti interventi governativi, costringendo la Nigeria a importare la maggior parte dei suoi prodotti petroliferi raffinati”, si legge.

“Problemi persistenti, come il furto di petrolio greggio e il vandalismo degli oleodotti, hanno eroso la capacità di produzione petrolifera della Nigeria negli ultimi anni, costringendo il governo a confrontarsi con produzioni in calo”.

 La carenza di carburante e l’impennata dei prezzi, la questione dei sussidi, ha generato un’ondata di proteste che sono state duramente represse. Il Petroleum Industry Act del 2021 stabilisce che la NNPC debba trasformarsi da impresa statale in una società una società privata.

Il governo di Tinubu sarà in grado di mettere mano alla riforma della compagnia petrolifera statale? Si chiede The Africa Report.

Resta preoccupante lo stato della democrazia in Africa, che vedrà nuove tornate elettorali in molti Paesi, tra cui Burundi, Camerun, Repubblica centrafricana, l’Egitto, il Gabon, la Costa D’Avorio, il Malawi, la Tanzania. E che continua ad essere alle prese con dure tensioni politiche.

“In Mozambico, ad esempio, gli osservatori politici temono che le proteste contro il partito al governo Frelimo, accusato di aver truccato le elezioni presidenziali di ottobre per prolungare i suoi 49 anni di potere, continueranno anche nel nuovo anno”, scrive sempre la testata tedesca. Irregolarità elettorali e tensioni che sembrano destinate ad accompagnare altri appuntamenti elettorali.

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Particolarmente delicata la situazione in Sudafrica, dove si è formata una coalizione tra l’opposizione della Democratic Alliance (DA) e il partito al governo, l’African National Congress che ha perso il controllo della maggioranza.

Il Sudafrica è alle prese con le sfide poste da un’economia in difficoltà e dalla necessità di creare nuove opportunità di lavoro.

Sudafrica che il 1 dicembre ha iniziato il suo turno di presidenza del G20 che Cyril Ramaphosa intende sfruttare “non solo per rappresentare gli interessi nazionali, ma anche per posizionare il Paese come portavoce dell’intero continente e del Sud del mondo”, scrive sempre Deutsche Welle.

Ce la farà il presidente del Senegal, Bassirou Diomaye Faye a mantenere le promesse di riforma fatte in campagna elettorale? Sradicare il “sistema predatorio” delle amministrazioni senegalesi, abbandonare il CFA e rinegoziare i contratti con le compagnie energetiche straniere.

Il Ghana avrà un nuovo presidente. John Mahama succederà a Nana Akufo—Addo e dovrà far i contri con la pesante eredità del suo predecessore.

“La nuova amministrazione dovrà affrontare una crisi finanziaria inarrestabile nel settore energetico che richiederà una revisione dell’intera catena del valore nel settore energetico”, afferma Bright Simons, imprenditore ghanese e fondatore di mPedigree, citato da The Africa Report.

Economia in crisi, debito alle stelle e una emergenza ambientale gravissima: Il 60 percento delle risorse idriche del Gahana è inquinato a causa dell’estrazione illegale di oro.

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Quanto agli Stati Uniti, ci si chiede quale sarà la postura della nuova amministrazione. “Nessuno si aspetta che la nuova amministrazione Trump si concentri molto sulla politica africana.

Ma il portafoglio africano nel 2025 presenterà ampie opportunità per affermare o rifiutare la leadership degli Stati Uniti, per proteggere o mettere a repentaglio gli interessi degli Stati Uniti e per allinearsi o opporsi alle società africane”, scrive il Council on Foreign Relations.

Che aggiunge quanto sia rischioso per l’America liquidare i “problemi africani” come problemi di nessun interesse per gli Stati Uniti. Farlo significherebbe, per esempio, “fare i conti con le loro implicazioni sulla libertà di navigazione nel Mar Rosso, un corridoio commerciale vitale, e il rafforzamento delle organizzazioni terroristiche”.

Repubblica Democratica del Congo

Sono almeno 13 i soldati dell’esercito congolese che rischiano la pena capitale, condannati a morte nella notte dell’ultimo dell’anno dal tribunale militare di Lubero, nel Nord Kivu.

Sono accusati di essere fuggiti davanti al nemico di fronte ai ribelli del’M23 contro cui l0esercito combatte ormai da circa tre anni, ma anche di aver nascosto munizioni da guerra, di furto, omicidio di civili e tentato stupro.

Altri quattro sono stati condannati a pene detentive. A luglio, erano stati condannati altri 50 soldati, sempre con l’accusa di codardia.

Secondo le autorità militari, scrive l’agenzia Reuters, questa sarebbe una mossa per “migliorare la disciplina” nelle forze armate, le FARDC.

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Il portavoce dell’esercito locale Mak Hazukay ha dichiarato che le defezioni dei soldati avrebbero contribuito all’avanzata del nemico: “Alcuni dei soldati che dovrebbero combattere il nemico al fronte hanno mostrato una sorta di indisciplina”, ha detto. “Abbiamo dovuto organizzare questo processo educativo per rimettere le cose a posto”.

Le udienze avevano lo scopo di “aiutare a ripristinare la fiducia tra l’esercito e la popolazione”, ha dichiarato a Reuters, Kabala Kabundi, il procuratore militare. I condannati hanno cinque giorni per ricorrere in appello.

La Repubblica Democratica del Congo ha applicato una moratoria sulle esecuzioni capitali che è durata vent’anni, dal 2003 fino al marzo del 2024.

Civili impiccati e militari fucilati, la sospensione della moratoria era stata decisa il 9 febbraio dello scorso anno con lo scopo di “affrontare la situazione della sicurezza nell’est del paese”, scrive Olivier LUNGWE FATAKI, attivista abolizionista di Pax Christi ad Uvira, in un intervento per la Coalizione mondiale contro la pena di morte.

La situazione di insicurezza che da decenni colpisce “la parte orientale del paese, così come gli atti di terrorismo e il banditismo urbano che hanno causato la morte di esseri umani, sono tutte ragioni utilizzate dalle autorità per il ripristino della pena di morte nella RDC”, scrive Fataki.

“La mancata applicazione della pena di morte da parte della RDC è stata vista come una garanzia di impunità”. Una scelta che non ha, invece, alcun effetto deterrente e non contribuisce a che venga fatta giustizia per le violenze e gli abusi compiuti sistematicamente in questa parte di Africa.

Secondo Fataki, per esempio, la presenza nel codice penale congolese della pena di morte sarebbe una delle ragioni per cui non vengono estradati in Congo quanti sono sospettati di aver commesso violazioni dei diritti umani.

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Anche se la lotta contro l’impunità richiede un miglioramento dell’aziona giudiziaria, “la revoca della moratoria sulle esecuzioni capitali rappresenta una battuta d’arresto rispetto a un traguardo che già salvaguardava, seppur precariamente, il diritto alla vita degli esseri umani condannati a pene crudeli, inumane e degradanti nella RDC”, scrive ancora.

“La decisione del governo di ripristinare le esecuzioni è una grave ingiustizia per le persone condannate a morte nella Repubblica Democratica del Congo e dimostra un insensibile disprezzo per il diritto alla vita”, aveva detto Tigere Chagutah, direttore regionale di Amnesty International per l’Africa orientale e meridionale, alla notizia della fine della moratoria.

“Sia che coloro che sono stati condannati a morte siano nell’esercito nazionale o nella polizia, in gruppi armati o siano stati coinvolti nella violenza delle gang, tutti hanno diritto alla vita e a che tale diritto sia protetto.

Questa decisione spietata metterà in pericolo la vita di centinaia di persone che sono state condannate a morte, comprese quelle che sono state messe nel braccio della morte a seguito di processi iniqui e accuse motivate politicamente”, aveva aggiunto.

Ora, sostiene Amnesty international, in un Paese con un sistema giudiziario inefficiente, molte persone innocenti sono a rischio di esecuzione. Tra loro, oppositori politici, attivisti e giornalisti.

Costa d’Avorio

Le truppe francesi lasceranno la Costa D’Avorio. L’ha annunciato il presidente Alassane Ouattara nel suo discorso di fine anno.

La base militare francese di Abidjan nel sobborgo di Port-Bouët sarà consegnata alla Costa d’Avorio a gennaio.

“Miei cari connazionali, cari fratelli, care sorelle, possiamo essere orgogliosi del nostro esercito la cui modernizzazione è ormai effettiva. È in questo quadro che abbiamo deciso un ritiro concertato e organizzato delle forze francesi in Costa d’Avorio”, ha detto il presidente.

Una decisione che sarebbe stata prese di comune accordo con i francesi, ha aggiunto.

In un’intervista rilasciata alla rivista francese Jeune Afrique, la scorsa estate, il ministro della Difesa Téné Birahima Ouattara aveva già annunciato che era allo studio di esperti ivoriani e francesi il progetto per una possibile partenza dei soldati dell’ex potenza coloniale.

Una scelta che si inserirebbe in una logica di riorganizzazione delle forze armate.

Secondo una fonte citata da Radio France International anche “a Parigi si prepara la riduzione dei numeri per passare da una logica di intervento a una logica di cooperazione-formazione” che prevede una riduzione sostanziale degli effettivi sul campo.

Sono circa 600 i soldati francesi in Costa d’Avorio, potrebbero rimarne un centinaio. A settembre, ricorda sempre RFI, era già stato trasferito il personale del campo di Lomo-Nord, vicino a Yamoussoukro scrive RFI.

“Gli osservatori politici ritengono che la Francia si stia sforzando di rilanciare la sua influenza politica e militare in declino in Africa”, scrive ancora la BBC.

Ancora un paese che ridimenziona o tagli i ponti con l’ex potenza coloniale. La Costa d’Avorio, che ospita il più grande contingente francese rimasto nell’Africa occidentale, è l’ultimo passo di un processo di riassetto delle relazioni internazionali di molti paesi africani.

Il Senegal ha annunciato che chiuderà le basi francesi entro il 2025, in coerenza con quella che dovrebbe essere “una nuova dottrina per la cooperazione in materia di difesa e sicurezza, che comporti, tra le altre conseguenze, la fine di tutte le presenze militari straniere in Senegal”, aveva detto il presidente Bassirou Dioumaye Faye.

A novembre il Ciad – fino ad allora stretto alleato della Francia nella lotta contro il terrorismo di matrice islamista – ha deciso di interrompere il patto di cooperazione difensiva conseguenza

La Francia ha già ritirato i suoi soldati da Mali, Burkina Faso e Niger dopo i colpi di stato che hanno portato al potere giunte militari che si sono sempre più avvicinate alla Russia. La Francia dovrebbe mantenere una presenza militare in Gabon e a Gibuti.

Mozambico

La tensione politica in Mozambico ha raggiunto un tale livello di violenza da costringere molti alla fuga. Sarebbero oltre 200 le persone uccise nell’ondata di violenza post-elettorale, e oltre 4000 arrestate, sostengono le organizzazioni della società civile.

In circa 13 mila, soprattutto donne e bambini, si sono rifugiati nel vicino Malawi che ora deve fronteggiare una nuova emergenza. Un numero destinato a crescere, secondo quanto riporta Voice of America.

Da quando è stata confermata la vittoria nelle elezioni del 9 ottobre, di Daniel Chapo, candidato alla presidenza della Frelimo, il partito che guida il Paese dalla sua indipendenza, si sono accese forti proteste duramente represse dalle autorità mozambicane.

Venancio Mondlane, che ha corso per il partito dell’opposizione, contesta l’esito del voto e agita lo spettro dei brogli. Conferme di irregolarità sono arrivate da diversi osservatori esterni, inclusa la missione dell’Unione Europea.

Sofia Jimu è un leader tradizionale dell’area di Tengani in Mozambico ed è tra coloro che sono fuggiti. Si trova adesso in un centro di evacuazione in Malawi. Voice of America racconta le sfide che è costretta ad affrontare, prima fra tutte, la ‘mancanza di cibo’.  “Tre bambini sono crollati a causa della fame in un solo giorno.

Tuttavia, ha detto a Voa, il giorno seguente sono arrivati 150 sacchi di farina di mais e quattro sacchi di fagioli da distribuire alle persone del centro”.

Mancano le risorse, ha dichiarato a VOA, Dominic Mwandira, commissario del distretto di Nsanje in Malawi, “per prendersi cura dei richiedenti asilo che attualmente vivono in campi di fortuna vicino al confine”.

Le aree del Mozambico dove le violenze sono più intense, quelle maggiormente colpite, sono le province settentrionali, tra cui Nampula, e la città di Beira, che è la seconda città più grande del Paese.

“Mondlane ha accusato le forze di sicurezza di incoraggiare i recenti disordini e saccheggi per consentire alle autorità di dichiarare lo stato di emergenza e reprimere le proteste”, scrive Radio France Internationale.

Che riporta quanto riferisce un giornalista di AFP, a Maputo: “Alcune barricate intorno alla capitale sono state smantellate, ma molte sono rimaste al loro posto per limitare il traffico …. Sospesi anche i trasporti pubblici”.

L’eredità di Jimmy Carter in Africa

Quando Jimmy Carter nel 1978 incontra a Lagos Olusegun Obasanjo, che guida la Nigeria, è la prima visita di stato di un presidente degli Stati Uniti d’America in Africa Subsahariana. In carica dal 1977 al 1981, Carter è morto il 29 dicembre all’età di 100 anni.

Uno dei capitoli più trascurati della sua eredità politica è l’impegno profuso nel continente africano e il ruolo giocato nel processo di indipendenza della Rodesia. Carter era nato e cresciuto in Georgia, uno stato del Sud, e non ne aveva mai messo in discussione le politiche razziste.

Negli anni, però, la sua visione era mutata facendosi sempre più vicino ai movimenti per i diritti civili.

“Mi sentivo responsabile e in un certo senso provavo un senso di colpa perché un secolo dopo la guerra civile continuavamo a perseguitare ancora i neri, e per me la situazione in Africa era inscindibile dalla questione della deprivazione, persecuzione o dell’oppressione dei neri nel Sud”, disse in un’intervista a Nancy Mitchell, professoressa di storia alla North Carolina State University e autrice di “Jimmy Carter in Africa: Race and the Cold War”.

Secondo quanto scrive la Mitchell in un contributo per The Conversation, la storia personale di Carter giocò un ruolo profondo nel plasmare il suo rapporto con l’Africa. Ma non fu soltanto questo. Ci furono ragioni di ‘realpolitk’, spiega la Mitchell. L’Africa era allora terreno di scontro tra le superpotenze, campo di battaglia della Guerra Fredda. Cuba era in Angola, durante la guerra civile, a fianco dei comunisti del Movimento popolare per la liberazione dell’Angola che combattevano contro le formazioni politiche sostenute dal Sudafrica, mentre il Mozambico era in mano alla Frelimo, di sinistra.

In Rodesia, la tensione era altissima, la maggioranza nera contestava duramente il regime segregazionista di Ian Smith. Carter era di fronte ad un dilemma, racconta ancora Nancy Mitchell: non poteva sostenere il governo razzista di Smith e non poteva permettere che anche questo pezzo di Africa cadesse sotto l’influenza del blocco comunista.

Furono i suoi sforzi a condurre ai colloqui alla Lancaster House di Londra che avrebbero portato alle prime elezioni libere del nuovo stato dello Zimbabwe, nel 1980. Tra i negoziatori statunitensi che sedettero al tavolo delle trattative c’era Andrew Young, uno stretto collaboratore di Martin Luther King.

“Ho dedicato più impegno e preoccupazione alla Rhodesia che al Medio Oriente”, disse ancora in una intervista alla Mitchell. 

Se in Rodesia, Carter aveva fatto cambiare rotta alla politica americana, in Angola invece tornò alle logiche della guerra fredda, rifiutandosi di ristabilire le relazioni con Luanda se i soldati cubani non fossero avessero lasciato il Paese.

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