Nuovo Giornale Nazionale – 2025 E L’ETA’ DELL’INCERTEZZA

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di Maurizio Ballistreri

La fase storica che stiamo attraversando e che segna questo nuovo anno, mi ha riportato alla mente una antica, ma sempre piacevole e interessante, lettura dell’economista statunitense John Kenneth Galbraith: “L’età dell’incertezza”, certo con analisi legate alle dinamiche economiche e politiche del tempo, ma che, in parte, conservano elementi di attualità 

Il 2025, si spera, possa costituire il viatico per uscire dall’età dell’incertezza e dell’insicurezza. Solo nella visione apocalittica del millenarismo è possibile ravvisare un tempo così gravido di incertezze come quello attuale, in cui si è diffusa una forma di insicurezza collettiva indotta dalla situazione pericolosa, violenta e incontrollabile in cui si trova una società globale allo sbando.

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Il tempo che viviamo ha radicalmente messo in questione le certezze che sembravano costituire il paradigma del XXI secolo, fondato essenzialmente sul superamento delle barriere economiche e spazio-temporali, ma non di quelle sociali, che, anzi, sono state riproposte in forme nuove e anche più discriminanti nei confronti di chi sta più in basso.

La sensazione di insicurezza che ci pervade è drammaticamente rafforzata dall’esplosione di un conflitto nel nostro Vecchio Continente, paradigma decadente del “mondo civilizzato”, che non immaginavamo potesse più avvenire, assieme ad altri fronti di guerra in Medio Oriente. Così come, grandi incertezza, rispetto ai vecchi equilibri geopolitici, desta la presidenza di Donald Trump negli Stati Uniti, così come il ruolo interferente nelle politiche nazionali e degli Stati da parte di Elon Musk, d’altronde, giusto contrappasso dantesco per chi ha predicato – la sinistra dell’insopportabile “politicamente corretto”, che ha abbandonato i diritti sociali e la tutela del lavoro e del welfare – in nome del mondialismo culturale ed economico, la fine del principio di sovranità del popolo, attraverso i parlamenti democraticamente eletti.

Le forze che si sono scatenate hanno sgretolato il vaso di Pandora nel quale era rimasto rinchiuso per molti anni (uno degli effetti benefici della globalizzazione) il demone dell’inflazione e messo a repentaglio il fragile equilibrio che si stava ricreando dopo la fase più acuta della diffusione del Covid 19.

L’età dell’incertezza ci sta portando a ripensare a un modello consolidato, quello derivato dalla globalizzazione, caratterizzato da un trentennio di crescita economica con bassa inflazione (cancellata dallo spostamento della produzione in Paesi a basso costo e sempre più in competizione tra loro). L’apertura indiscriminata dei mercati internazionali delle merci e dei capitali seguita alla caduta della cortina di ferro, nel 1989, ha completamente trascurato le sue potenziali future conseguenze geopolitiche, rafforzando oltre misura gli avversari storici del mondo occidentale. Le parole dell’economista francese del XIX secolo Frédéric Bastiat, “Dove non passano le merci, passeranno gli eserciti”, hanno guidato negli ultimi decenni le strategie europea e americana, trascinate anche dall’interessato entusiasmo delle grandi multinazionali, soprattutto quelle dell’economia digitale, prime beneficiarie del nuovo verbo. Ora che gli eserciti si sono rimessi in moto non è dato comprendere quale sarà il nuovo equilibrio.

In questo 2025 da poco sorto, quindi, l’elemento costitutivo del nostro tempo, la globalizzazione, appare profondamente in questione e, per riprendere le analisi di Zygmunt Baumann, l’insicurezza nasce dalla nostra interdipendenza planetaria, proprio dallo spazio globale prevalente sulle comunità territoriali.

Servono i valori di un nuovo umanesimo, con regole economiche e sociali che pongano al centro il valore della persona, che devono sostituire l’ideologia mercatistica e l’egoismo, per affrontare le nuove sfide che la nostra fragile civiltà dovrà vincere in futuro.

Conflitti, virus, migrazioni, riscaldamento globale, ambiente, tutela del lavoro, povertà sono solo alcune delle principali sfide con cui dovremo fare i conti e che potremo vincere solo se saremo capaci di guardarvi con una visione più ampia e con un’adeguata cultura di governo.

Quest’ultimo rappresenta il problema centrale per il nostro Paese, alle prese con un ceto dirigente, non solo politico, percepito e nei fatti non adeguato, rispetto all’attuale problematica condizione dell’Italia,

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