miti e realtà sul Brain Rot

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“Brain rot”, ovvero il “marciume cerebrale”, è diventato il simbolo di un disagio diffuso e sempre più riconoscibile nella società iperconnessa. Pur non essendo un termine scientifico, è così calzante che è stato di recente eletto parola dell’anno e ci ricorda il nostro complicato rapporto con il digitale.

Si tratta del presunto deterioramento mentale associato all’eccessivo consumo di social media. Presunto, qui, è la parola chiave, perché anche se tante persone conoscono quella sensazione di impoverimento mentale dopo ore di scrolling, non è poi così ovvia l’associazione causa-effetto con l’utilizzo del digitale. Ma andiamo per ordine.

Declino cognitivo e digitale: dati alla mano

La preoccupazione che i social media e l’uso intensivo della tecnologia digitale possano danneggiare il cervello non è nuova. Ma cosa dicono davvero i dati? E quanto c’è di vero in questi timori?

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Un recente studio condotto dall’Università della California ha scoperto che l’uso frequente dei social media può cambiare il modo in cui il cervello elabora informazioni, in particolare nei giovani. Ad esempio, si è osservato che l’eccessiva esposizione a stimoli rapidi, come video brevi e notifiche, può ridurre la capacità di concentrazione e compromettere la memoria a breve termine. Ma gli stessi ricercatori ci dicono che questi effetti non sono permanenti: quindi non si parla di “danni” al cervello, ma di semplici adattamenti che l’organo fa – anche in moltissimi altri casi.

E questa cosa ha un nome specifico, stavolta scientifico: si chiama neuroplasticità.

La neuroplasticità è il potere di trasformazione del nostro cervello, ovvero la sua capacità di modificarsi in base alle esperienze che viviamo, capacità che seppur in forma diversa o ridotta, si mantiene a tutte le età. E, dicevamo, è un adattamento di cui siamo inconsapevoli che avviene in tutte le nostre attività.

Degli esempi di neuroplasticità che potremmo avere sperimentato sono:

  • al rientro dalle vacanze, notiamo una temporanea difficoltà nel ricordare password o routine lavorative. Il cervello, dopo essersi adattato a un ambiente diverso, richiede alcuni giorni per riorganizzare le connessioni neurali legate alle attività quotidiane;
  • chi gioca regolarmente ai videogiochi sviluppa una migliore coordinazione occhio-mano e riflessi più rapidi, miglioramenti che tendono a diminuire gradualmente quando l’attività viene interrotta. Questo ci dimostra la natura dinamica della plasticità cerebrale;
  • durante un soggiorno prolungato all’estero, il cervello si adatta progressivamente alla nuova lingua, arrivando anche a modificare i processi di pensiero. Al ritorno nel paese d’origine, questi adattamenti neurali si riequilibrano naturalmente verso la lingua madre.

Allarmismo o realtà?

Detto ciò, nonostante i titoli sensazionalistici e una narrativa spesso catastrofica, dalla ricerca sappiamo che molti dei rischi attribuiti al digitale sono indiretti. Non è tanto la tecnologia in sé a “rovinare” il cervello, ma l’abitudine a riempire ogni momento vuoto con sole attività digitali. Questo impoverisce inevitabilmente le altre esperienze e, anche se può sembrare controintuitivo, non ci consente di “annoiarci” e di stimolare la creatività o le interazioni dirette con il mondo reale.

Anche un recente report dell’American Psychological Association ha sottolineato che il problema principale non è il tempo trascorso online, ma il tipo di contenuti e le abitudini ad esso legate.

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Inoltre, uno studio condotto dall’Università di Oxford ha smentito correlazioni tra uso dei social media e danni cognitivi a lungo termine, dimostrando che il contesto familiare e scolastico è molto più determinante per lo sviluppo delle capacità cognitive dei giovani, che non i social media.

Il punto è ormai chiaro e confermato da tutti gli studi, negli anni: i contesti che favoriscono interazioni significative, come gruppi di amici o momenti di apprendimento e di creazione, anche online, hanno effetti positivi e stimolanti sulla mente. Al contrario, l’uso compulsivo e passivo dei social è associato a un generale impoverimento della qualità degli stimoli.

Quindi, parola dell’anno o no, per comprendere questi fenomeni è importante fare riferimento alla ricerca scientifica, che è l’unico modo per distinguere tra rischi reali e allarmismi mediatici.

La tecnologia non è né il nemico né la salvezza assoluta: è un mezzo che sta a noi imparare come usare.

Cervello 2.0: come cambieranno le nostre menti

Come dicevamo, il nostro cervello è un organo straordinariamente adattabile, capace di rispondere a stimoli sempre nuovi e di trasformarsi in base all’ambiente che ci circonda. Quindi, come possiamo aspettarci che si evolverà in un mondo sempre più iperconnesso?

Ricerche condotte dal Massachusetts Institute of Technology hanno rivelato che il cervello umano sta sviluppando strategie nuove per gestire il flusso continuo di informazioni.

Ad esempio, invece di memorizzare grandi quantità di dati, stiamo sviluppando capacità superiori di ricerca rapida e selezione critica delle informazioni. Questa evoluzione rappresenta un adattamento funzionale all’era dell’informazione digitale, dove la priorità diventa “sapere dove cercare” piuttosto che “ricordare”.

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Differenze generazionali

L’impatto della tecnologia sul cervello si manifesta poi in modo particolarmente evidente nel divario generazionale.

  • i nativi digitali mostrano una notevole capacità di passare velocemente da un’attività all’altra, elaborano le informazioni con maggiore rapidità, presentano una naturale predisposizione all’utilizzo di interfacce digitali multiple, ma potrebbero manifestare difficoltà nel pensiero critico profondo e nella creatività;
  • le generazioni pre-digitali invece mantengono un approccio più lineare all’elaborazione delle informazioni, hanno una maggiore capacità di concentrazione, possono incontrare difficoltà nell’adattarsi alla frammentazione informativa e conservano modalità di apprendimento più tradizionali.

Gli esperti, comunque, prevedono un’evoluzione importante nel rapporto tra mente umana e tecnologia. L’avanzamento delle interfacce cervello-computer e l’integrazione dell’intelligenza artificiale nei processi cognitivi stanno infatti aprendo la strada a nuove forme di intelligenza aumentata.

Questo processo è già visibile in diversi ambiti, come calendari digitali per la gestione del tempo, app per la memorizzazione e l’organizzazione delle informazioni, sistemi di memoria virtuale estesa e assistenti digitali per la produttività.

Il futuro della cognizione umana dipenderà dalla nostra capacità di integrare armoniosamente tecnologia e processi mentali naturali. L’obiettivo non è resistere al cambiamento, ma guidarlo in una direzione che potenzi le nostre capacità preservando l’essenza del pensiero umano. La tecnologia può diventare un potente alleato nel nostro sviluppo cognitivo, a condizione che rimanga uno strumento al servizio dell’intelligenza umana e non un sostituto delle nostre capacità fondamentali di pensiero, creatività e problem-solving.

Abitudini digitali consapevoli: il ruolo dell’educazione digitale 

L’uso consapevole della tecnologia non è un istinto innato, ma una competenza che si può sviluppare. L’educazione digitale, soprattutto per le nuove generazioni, consente di imparare a distinguere ciò che ci arricchisce da ciò che ci svuota.

Alcune scuole stanno introducendo corsi di alfabetizzazione digitale, insegnando ai ragazzi non solo come usare le piattaforme, ma anche come riconoscere le fake news, gestire il cyberbullismo e proteggere la propria privacy. Anche per gli adulti esistono risorse utili: app come Forest, che aiuta a concentrarsi piantando alberi virtuali quando non si usano dispositivi, o Digital Wellbeing, che monitora l’uso dello smartphone e suggerisce strategie per ridurlo.

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La chiave è passare da un uso passivo della tecnologia a uno attivo e consapevole. Fare piccoli e utili passi per riprendere il controllo del nostro tempo e delle nostre energie.





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