Cosa vuole davvero l’Iran dall’Italia: ecco perché il caso Sala è un ginepraio

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L’arresto di Cecilia Sala a Teheran – in isolamento nel famigerato carcere di Evin, dove vengono reclusi i detenuti politici – è vicenda assai complicata, come ammette anche la Farnesina. Sebbene le accuse nei confronti della giornalista italiana non siano ancora note, le circostanze fanno pensare a qualcosa di diverso dall’ordinaria volontà del regime iraniano di mettere fine a contatti professionali con esponenti del movimento di opposizione Donna, Vita e Libertà.

Sala è stata fermata pochi giorni dopo l’arresto a Malpensa, su richiesta degli Stati Uniti, di un imprenditore svizzero-iraniano, Mohammed Abedini-Najafabadi, accusato di aver trasferito ai Pasdaran, violando le sanzioni che gli Usa hanno adottato nei confronti dell’Iran, tecnologia militare per droni. Gli stessi che avrebbero ucciso tre militari americani in Giordania. Detenuto in un carcere lombardo, Abedini-Najafabadi è ora in attesa della decisione sull’estradizione da parte della Corte d’Appello di Milano. A confermare la rilevanza del caso, l’immediata protesta diplomatica di Teheran per l’arresto.

La concomitanza degli avvenimenti, fa pensare che Teheran intenda stabilire un legame tra i due casi. L’arresto di Sala sarebbe una ritorsione per fare, quanto meno, pressione sull’Italia nel caso Abedini. Se così fosse, Roma si troverebbe di fronte a un passaggio problematico.

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La vicenda Sala, infatti, ha connotati diversi da quella di Alessia Piperno, blogger italiana arrestata in Iran nel settembre 2022 e liberata, dopo un mese e mezzo di intensa negoziazione diplomatica tra Roma e Teheran. Da allora, molto è cambiato nel Paese governato dagli ayatollah (e dai Pasdaran): la guerra tra Israele e l’Asse della Resistenza, esplosa dopo il 7 ottobre 2023, ha drasticamente mutato lo scenario regionale a vantaggio del primo, e la delegittimazione del regime, nonostante il tramonto delle proteste di strada, duramente represse, è lievitata. Oggi, persino lo spazio per un’eventuale trattativa fondata su richieste tipiche della “politica degli ostaggi” che Teheran non ha mai disdegnato, appare precluso da vincoli di carattere interno e internazionale.

Non solo la vicenda Abedini-Najafabadi non è nella disponibilità del governo italiano: la decisione della sua estradizione dipende dalla magistratura, del tutto autonoma in uno Stato di diritto. Il ministero della Giustizia potrebbe, al massimo, ritardare tecnicamente la consegna del detenuto in caso di sì all’estradizione, non certo vanificarla. Una strada preclusa dal trattato di estradizione tra Usa e Italia – lo stesso che ha consentito di riportare nel nostro Paese, per scontare la parte residua di pena, il condannato in via definitiva Chico Forti, accolto allora con enfasi dal governo italiano: difficile pensare che la nuova amministrazione Trump accetti una qualche ipotesi di “scambio” tra i due arrestati. Questione che sarebbe complicata anche politicamente per Meloni, interessata a tessere col nuovo inquilino della Casa Bianca gli stretti rapporti intrattenuti con Biden: l’esordio con The Donald non sarebbe dei migliori. Insomma, se Teheran tenesse fermo il legame tra le due vicende, Roma dovrebbe individuare altre strade, non facili in un simile contesto.

Ma perché Teheran agisce così ? La Repubblica Islamica è molto indebolita dopo i colpi subiti, direttamente e indirettamente, nel corso di quella guerra dei proxies che la contrappone a Israele, e per effetto del recente tracollo dell’alleato siriano Assad. Esposta strategicamente, Teheran non esclude nemmeno il via libera di Trump al regime-change. Mossa che potrebbe essere innescata da una sollevazione di strada seguita a un massiccio e destabilizzante attacco di Israele.

In questo clima d’assedio, dominato dalla percezione che tutto possa essere in gioco, i gruppi che costituiscono il nocciolo duro del regime – il clero conservatore che fa capo a Khamenei e, soprattutto, i Pasdaran, custodi della continuità del regime, paiono decisi a sfruttare ogni occasione per evitare che la situazione precipiti. Dall’Italia si può certo volere la consegna di un uomo vicino ai potenti Guardiani della Rivoluzione, ma un atteggiamento meno allineato nelle prossime, decisive, partite politiche, sarebbe ancora più gradito. Si profila all’orizzonte la “costellazione del pericolo” Trump-Netanyahu, foriera di un doppio rischio per l’Iran: via libera all’attacco di Israele, taglio gordiano dell’intricato nodo del nucleare.

Per venire a capo della vicenda Sala, l’Italia sembra cercare una sponda nel riformista moderato Pezeshkian, il cui peso nei ranghi del potere è, nonostante la carica, limitato. Magistratura, Pasdaran, coloro che in questo caso possono davvero incidere, sono legati alla Guida Khamenei non certo al presidente della Repubblica Islamica. Dato di fatto da tenere in considerazione in ogni eventuale dinamica negoziale.

La soluzione del caso Sala sembra allora dipendere dalle aspettative iraniane sulla situazione più generale e da ciò che l’Italia potrebbe mettere sul piatto accettando di andare a vedere il gioco. Saranno i calcoli relativi a vantaggi e svantaggi legati alle diverse opzioni, a guidare la scelta di Teheran sul che fare. —



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