Tra Musk e Trump, il neo-isolazionismo Usa alla prova dei fatti

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Se l’Europa – almeno quella Occidentale – ha potuto godere di 80 anni di pace, questo lo si deve essenzialmente alla deterrenza che gli Stati Uniti hanno esercitato, tramite la propria forza di difesa, nei confronti della Russia. Ricostruire questa capacità di deterrenza sarà sicuramente una sfida della politica internazionale dei prossimi anni: l’approccio di Trump, nella sottovalutazione della storica di abilità di federare degli Usa, è essenzialmente semplificatorio.

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L’America ha infatti costruito la propria leadership sulle alleanze, delle quali essa stessa è diventata perno imprescindibile. La rottura trumpista si articola insieme alla sfiducia nelle istituzioni internazionali, dove la grande potenza riferimento globale viene ridotta a pura tutela di interessi nazionali – con strumenti, tra l’altro, del tutto inadeguati al tempo che ci è dato vivere.

Nel mondo del G-Zero, per dirla alla Ian Bremmer, il paradigma sovranista cresciuto attraverso la piattaforma pensata da Steve Bannon è infatti una risposta fuori dalla storia: non si tratta di selezionare in maniera più marcata le proprie priorità strategiche, bensì di rinunciare, in sostanza, al ruolo valoriale di faro del mondo libero. Quando gli States hanno compiuto scelte isolazioniste, come accaduto davanti alla minaccia nazista negli anni ‘30, l’Europa è stata trascinata nel più tragico conflitto della storia.

Oggi è sempre più diffusa l’idea di poter cinicamente “comprare” la propria tranquillità vendendo pelle e libertà degli ucraini al Cremlino, nella riproposizione ciclica di fasi che somigliano molto alla conferenza di Monaco del 1938, che illuse l’Europa di essere arrivati a una pace stabile con la Germania nazista. L’invasione dell’Ucraina, al netto di quanto propagato dalla vulgata “pacifista”, non ci sarebbe stata – o più probabilmente avrebbe potuto concludersi nel giro di pochi giorni – nel caso in cui Usa e alleati europei avessero reso chiaro fin dall’inizio che non avrebbero esitato a usare in modo massiccio la propria forza militare se i carri armati russi non fossero rientrati nei propri confini.

In generale, il vero rischio è che la fine del supporto all’Ucraina e il disimpegno americano possano aprire a un periodo di forte instabilità, caratterizzato da ancora maggiore incertezza e volatilità, dove leader quali Putin, Xi Jinping, Erdogan, Orban e Trump, tutti contemporaneamente al potere, aprono a uno scenario da pessimismo concreto. Per questo, è ancora più importante che la Casa Bianca venga guidata da personalità che non abdichino alla fisiologica responsabilità degli Usa verso il mondo libero. Oltre al più alto timore militare, c’è un’ovvia paura legata all’andamento dell’economia mondiale. Politiche protezioniste composte da dazi e tariffe, sia unilaterali che bilaterali, scatenerebbero l’effetto ripresa delle guerre commerciali. Ma questi strumenti causano inflazione, con logici tassi di interesse più elevati, fattori di rallentamento dell’economia internazionale.

Se Trump dovesse rispettare le promesse di politica interna, dovremmo aspettarci maggiore deficit fiscale (conseguenza di una riduzione massiccia della tassazione, anche se ponderata su individui più benestanti e grandi corporations). Ciò genererebbe però un accrescimento del debito pubblico americano, diffusa instabilità finanziaria e, nuovamente, maggiori tassi di interesse: tutti rilevanti freni alla crescita.

Nel quadriennio Biden l’economia nazionale è andata decisamente bene (occupazione alle stelle, creazione di nuove imprese): la percezione negativa del suo corso è stata, sostanzialmente, un dato di dissociazione dalla realtà, come spesso capita sul piano della sensibilità politica. Questo fenomeno sociale probabilmente è da spiegare, nel caso di specie, tramite il problema dell’inflazione. L’inflazione si paga in termini di responsabilità di chi governa, anche nel caso in cui l’economia sia molto forte, devastando l’intuizione comune sul grado di benessere. Le persone odiano l’inflazione “di Biden”, e lo puniscono votando Trump.

Eppure, Trump è quello che vuole minare l’indipendenza della Fed, da cui deriva proprio la capacità di tenere l’inflazione sotto controllo, in un vortice di palesi contraddizioni. Ciò non toglie le responsabilità di Harris sul programma economico, che è stato molto timido, quasi nascosto: avrebbe potuto rivendicare i successi dell’amministrazione Biden, ha invece portato avanti misure di scarso respiro – sussidi su mutui, piccole imprese e poco altro – anche per distinguersi da Biden, causa appunto spettro inflattivo.

Altro tema cruciale è stato chiaramente quello relativo all’immigrazione. Questo sottolinea un altro cortocircuito, almeno parziale, nell’elettorato americano: l’immigrazione, motore cruciale della prosperità economica nella storia del Paese – oltre che tra le spinte principali degli ottimi risultati economici con Biden – ha assunto le vesti prevalenti di minaccia e insicurezza. Trump ha passato tutta la campagna elettorale a diffondere notizie false sui migranti, annunciando un rigidissimo e quasi certamente irrealizzabile piano per espellere i migranti irregolari che vivono nel Paese – circa 11 milioni di persone. È in ogni caso probabile che cercherà di ridurre al minimo il numero di persone straniere a cui è consentito trasferirsi negli Usa. La questione è molto complicata, e sicuramente richiederà una profonda riflessione di indirizzo del mondo democratico e progressista.

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C’è invece un altro capitolo specifico che richiede analisi più precise e approfondite: quello dell’innovazione tecnologica. Se la rivoluzione dell’intelligenza artificiale è già in corso da tempo negli Stati Uniti, in ottica comparata l’Ue si trova a rincorrere. Gli imprenditori di AI hanno accolto positivamente l’elezione di Trump, con i titoli tecnologici in forte ascesa. L’approccio prevalente negli States sembra essere di sostanziale laissez-faire, a differenza della massiccia regolamentazione propria del Vecchio Continente, destinata tra l’altro a crescere, sebbene manchino le stesse grandi aziende con economie di scala necessarie al fine di catturare i benefici della nuova frontiera dell’AI.

Le modalità di gestione delle nuove prospettive tecnologiche potrebbero portare a un accresciuto differenziale di produttività tra Europa e Usa. Ci si chiede se, in tale contesto, il vero vincitore dopo il trionfo di Trump possa essere Elon Musk. La vittoria di Trump, infatti, è potenzialmente un game-changer per Musk, che ha scommesso su The Donald in maniera massiccia, investendo oltre 130 milioni di dollari nella campagna. Il primo uomo della storia a superare un patrimonio di 400 miliardi di dollari mette davanti a un livello di concentrazione di ricchezza se non senza precedenti (bisogna comunque isolare i valori, nell’ottica intertemporale, da inflazione e crescita economica avvenuta) almeno che si è visto raramente. Ma questa non è la questione principale.

Le due maggiori fonti di ricchezza muskiana sono le azioni di Tesla e SpaceX. La crescita del suo patrimonio è dovuta alla rivalutazione del valore di SpaceX, che ha raggiunto i 350 miliardi, tale da farne la società non quotata dal maggiore valore al mondo. Una valutazione così elevata di SpaceX deriva essenzialmente da tre fattori: il quasi monopolio nel campo dei lanci spaziali, grazie al razzo Falcon 9; Starlink, proprietà della maggior architettura satellitare per telecomunicazioni al mondo – con oltre 6300 satelliti, possiede più della metà di tutti i satelliti in orbita intorno alla Terra; il successo di Starship, nave spaziale riutilizzabile.

La ricchezza di Musk derivata dalla proprietà del 42% delle azioni di SpaceX si basa quindi su tre innovazioni tecnologiche che gli stanno conferendo un monopolio di fatto nei rispettivi campi di applicazione: qui sta tutto il vero problema incarnato dalla sua persona. Il tema non è il livello raggiunto dal patrimonio, bensì il possesso di tre innovazioni chiave per il futuro del pianeta, che lo rendono inoltre monopolista di tre rami diversi dell’industria aerospaziale: lanci, comunicazioni satellitari, sfruttamento commerciale dello spazio extra-atmosferico.

Musk, in sostanza, attraverso novità straordinarie che hanno cambiato i prezzi di interi settori industriali, si è assicurato non solo il monopolio dei mercati, ma anche il controllo di tutta una serie di futuri mercati che attualmente possiamo solo immaginare (ad esempio, l’estrazione di metalli preziosi e terre rare su Luna, Marte e/o asteroidi). Come dunque affrontare, o almeno ridurre la portata di tale dominio? Se la repressione della ricchezza attraverso espropri o patrimoniali non può essere una soluzione (ciò porterebbe innovazioni tecnologiche sviluppate da altri verso chi ha meno competenza nell’utilizzo, dando al contempo il segnale-disincentivo agli imprenditori di non proporre innovazione), la via per combattere i monopoli può essere solo quella concorrenziale.

Solo la concorrenza è infatti in grado di sfidare i monopoli e le sue rendite, senza al contempo impattare in maniera distruttiva su interi settori industriali. L’aumento di concorrenza nelle stesse tecnologie richiede certamente volontà politica, investimenti – privati e pubblici – e tempo. Blue Origin di Bezos, negli Usa, sta ad esempio per iniziare la costruzione di una sua rete satellitare. Musk rispetto ai competitor ha iniziato più di un decennio prima: recuperare terreno non potrà essere immediato. L’unica cosa certa a questo punto è che senza concorrenza non solo diventerà ancora più ricco, ma si rischierà un potenziale di impatto e direzione individuale destinato a crescere.

Per tale motivo Mario Draghi ha ragione nel chiedere con urgenza che l’Europa concentri tutta la sua energia sull’innovazione: il progetto Iris2, molto simile a Starlink, va in questa direzione. Per fare un esempio di portata rilevante (purtroppo in negativo), nella infrastruttura tecnologica su cui si stanno concentrando gran parte degli investimenti in questa fase, cioè il quantum computing, sulle dieci principali società nel mondo nessuna è in Europa, cinque sono negli Stati Uniti e quattro in Cina. Oltre a essere l’uomo più ricco del mondo, Musk è – almeno per il momento – una sorta di secondo presidente degli Stati Uniti, ruolo che contribuisce ad annoverarlo tra le persone più potenti nel globo, insieme a Trump, Xi, Putin, Modi. SpaceX è già il top contractor per la NASA, ma ora potrebbe consolidare il suo dominio.

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Un governo amico potrebbe attenuare le eventuali pressioni regolatorie nei confronti di Starlink. Tesla sente grande pressione dai rivali cinesi (che offrono macchine a costi decisamente inferiori), ma dazi più alti sulle importazioni potrebbero favorirla in maniera netta. Neuralink, la società che installa impianti cerebrali, ha già due test umani approvati dalla FDA: Musk potrebbe vedere un’accelerazione normativa con un possibile cambio al vertice e l’ingresso di Bob Kennedy Jr., noto critico dell’agenzia, che potrebbe favorire approvazioni più rapide. Nel contesto della sua funzione come simil secondo presidente, è però possibile sottovaluti la componente umana di contesto relazionale: Trump vuole tutto il merito, finora, riconosciutogli. Vedremo però come evolverà il loro rapporto: entrambi non sono sicuramente abituati ad essere subordinati. Al netto di tutto, tempi in cui è difficile annoiarsi.

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