Roberto Esposito: “L’Italia, paese senza ordine e senza conflitto”

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Roberto Esposito, uno dei più importanti filosofi italiani, è appena rientrato dalla Francia. Si torna sempre a Napoli, un po’ perché le feste si fanno a casa, un po’ perché allontanarsi è la scusa per farvi ritorno. I giorni dell’anno che volge al termine sono l’occasione per ascoltarlo, non per tracciare un bilancio (di che cosa, poi?), ma per dare la parola alla nostra amica filosofia, posto che ci sia ancora qualcuno interessato ad ascoltarla. Lui, che alla filosofia e al puro pensiero filosofico è rimasto fedele, non si sottrae. Lavora su fascismo e filosofia, senza trascurare l’amato Niccolò Machiavelli. Saranno i suoi doni, che attendiamo con passione, per il 2025.

Con la mente del filosofo, come lo immagini il 2025?

La consapevolezza cui ci conduce oggi la filosofia è l’impossibilità della previsione. In realtà è sempre stato così, se persino Machiavelli, che pure crede in una certa ripetitività della storia, assegna un peso assai rilevante al caso e alla contingenza, per non parlare della “fortuna” – che la “virtù” può solo cercare, quando è possibile, di governare, ma non certo dominare. Ma oggi l’impossibilità della previsione si è accentuata per due elementi convergenti: il crollo del sistema del diritto internazionale che ha regolato i rapporti tra gli Stati negli ultimi settanta anni e il salto tecnologico, con al primo posto lo sviluppo inarrestabile dell’intelligenza artificiale. Se si aggiunge la catastrofe ambientale cui siamo esposti, si dovrebbe concludere che sappiamo poco perfino sul destino della specie umana. Poi, naturalmente, c’è un piano più ravvicinato di discorso che riguarda le nostre vite personali – anch’esso solo in parte padroneggiabile, ma su cui è almeno possibile fare progetti a corto raggio. Da questo punto di vista più ridotto, il prossimo anno usciranno, spero, il mio libro su fascismo e filosofia, un tema ovviamente complesso e delicato; e poi una raccolta dei miei saggi su Machiavelli, scritti a partire dagli anni Settanta del Novecento fino a oggi. C’è infine la politica italiana, per la quale da tempo provo una certa insofferenza.   

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Perché gli uomini, nonostante le tante buone intenzioni sbandierate ai quattro venti, continuano a fare le guerre?

Perché sono dominati, come ha già spiegato Hobbes, e hanno confermato Nietzsche e Canetti, da due pulsioni fondamentali – la paura e la volontà di potenza. Entrambe, nella loro necessaria connessione, portano verso la guerra. Per esempio, è stato così per la Russia, in cui la volontà di potenza imperiale si è congiunta alla paura di perdere una fascia di Stati satelliti che la riparasse da possibili ingerenze della Nato. Anche per Israele, aldilà della dissennata politica di Netanyahu, agisce una, ben giustificata, paura esistenziale di accerchiamento e annientamento. Se ci pensiamo, quasi sempre le guerre nascono in questo modo. Naturalmente con alcune eccezioni, a partire dalla seconda guerra mondiale, dove la Germania non poteva certo temere per i propri confini. Naturalmente queste sono le motivazioni profonde, radicate nella falda antropologica degli individui e delle popolazioni. Poi vi sono, di volta in volta, ragioni più contingenti.

Qual è lo stato di salute delle Istituzioni nel nostro Paese?

Non buono. Ciò dipende da una lunga storia, che risale all’unificazione del Paese, alla mancanza o insufficienza di Stato nei confronti di una società più ricca e più viva. Poi il fascismo non è passato senza lasciare tracce negative sulla storia italiana successiva. Da questo punto di vista l’Italia condivide lo stesso destino della Germania, un destino che la distingue da Paesi con una modernizzazione meno traumatica come Francia ed Inghilterra. Infine, il crollo della prima Repubblica non ha mai generato una “seconda” Repubblica funzionante nelle sue articolazioni istituzionali. Va anche detto che la pessima legge elettorale che abbiamo non aiuta. Così come la mancanza di un ceto amministrativo competente e autorevole. Per quanto riguarda, poi, l’istituzione italiana che conosco meglio, cioè l’Università, anche al di là delle disfunzioni più note, c’è un altissimo tasso di corruzione. Nei concorsi prevale regolarmente il candidato interno, del tutto a prescindere dal merito suo e degli altri candidati. Adesso è stata approvata un’ultima norma che assegna la scelta del vincitore ai Dipartimenti, tra gli abilitati dalle commissioni. Una provincializzazione crescente dell’Università che va in direzione opposta all’esigenza di unificazione nazionale e di allargamento internazionale. Devo dire che l’unica Università che resiste a questo scempio è la Scuola Normale Superiore, che vieta le carriere interne. Sarebbe bene che qualche voce autorevole del mondo accademico si levasse per denunciare questa situazione. Ma so bene che non accadrà: nessuno ha interesse a farlo.

Penso al nostro caro maestro Biagio de Giovanni e ti chiedo: l’Europa ti dà più amarezza o speranza?

Sono legatissimo a Biagio, un maestro e un amico carissimo al quale devo molto in tutti i sensi. E uno straordinario intellettuale, i cui libri e la cui attività politica, in Italia a in Europa, ha segnato diversi decenni in forma indelebile. L’Europa mi dà molto più amarezza che speranza. Dopo la fase del Covid, in cui ha avuto un sussulto di vitalità, mettendo a disposizione grandi fondi (alcuni in debito) soprattutto per i paesi più colpiti dal virus, adesso tace su tutto, a partire dalla guerra. Ciò ha radici lontane che risalgono alla nascita dell’Unione, quando fu fatta (soprattutto per responsabilità del Regno Unito e della Francia) una scelta non solo impolitica, ma spoliticizzante, che riduceva l’Europa a cane da guardia dell’economia e a qualche corte di giustizia, generalmente priva di incidenza. I suoi organi, non essendo eletti, ad eccezione di un parlamento che conta poco, non hanno alcuna legittimazione. Quando la legalità perde il rapporto con la legittimità, tende a inaridirsi in pratiche burocratiche senza nerbo e vita.

Quali sono i criteri fondamentali per dire che una democrazia non è in pericolo?

Direi quando non sono minacciati l’autonomia e il bilanciamento reciproco dei poteri. Quando non è messa a rischio la libertà della stampa e dei media indipendenti. Ma direi anche che quando una parte consistente della popolazione scende sotto una soglia minima di povertà, non può non essere messa a rischio la tenuta democratica del paese. In senso stretto la differenza sociale non ha a che fare direttamente con la democrazia. Ma una società fortemente diseguale finisce per mettere a rischio anche la libertà dei cittadini. Come può sentirsi libero chi non arriva a fine mese o non può curarsi? Del resto la democrazia moderna protegge, oltre i diritti civili e politici, anche i diritti sociali dei suoi membri. Da questo punto di vista, già a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, le democrazie occidentali sono entrate in una fase di forte difficoltà.  

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Elon Musk, con tutto ciò che reca con sé, ti preoccupa o ti spaventa?

Mi preoccupa fortemente. Non tanto per le sue opzioni politiche, che non condivido, quanto per l’immane potenza economica, politica e anche militare che sta accumulando. Quando il potere è così concentrato in poche mani, non può mancare una preoccupazione che riguarda il futuro non di un solo Stato, come gli Stati Uniti, ma di tutta la terra. Naturalmente lo sviluppo tecnologico ha anche un forte aspetto positivo. Il problema sono le forme del suo controllo, ammesso che sia ancora controllabile. Nel mondo contemporaneo, alla crescita esponenziale della tecnologia non ha fatto riscontro un pari sviluppo della politica. Al contrario, la politica appare sempre più impreparata a fronteggiare le sfide radicale che vengono dall’economia e dalla tecnica. Dicendo ciò, non mi voglio in nessun modo affiancarmi ai critici della tecnica del secolo scorso. Né assumere una posizione tecnofoba – si pensi all’apporto positivo che la tecnologia può dare allo sviluppo della medicina. Ma anche quella tecnofila a prescindere, mi sembra irresponsabile. Per esempio, chi può davvero misurare le conseguenze dello sviluppo dell’intelligenza artificiale sul mondo del lavoro?

I tuoi libri sono tradotti in tanti Paesi e spesso sei in giro per conferenze: che cosa ti dicono dell’Italia?

Intendi cosa mi dicono i colleghi e gli amici stranieri? 

Certo.

Sono soprattutto sorpresi della differenza di livello tra i diversi ambiti. L’Italia ha una società civile molto vivace, un patrimonio culturale che non ha pari nel mondo. E anche nella ricerca scientifica ha molti punti di eccellenza. Ma tutto ciò in un quadro istituzionale assai fragile, come dicevamo prima. In una situazione in cui non è incentivata né la ricerca né l’innovazione. Dove tutto sembra ristagnare in una dimensione di declino. Insomma, da un lato sembriamo davanti agli altri, dall’altro molto indietro. Ma questo, dello sviluppo ineguale, non è una novità. Per certi versi è stato sempre così. Il nostro è un paese stabilmente squilibrato, inquieto, complesso. È questo che non è facile capire all’estero. A ciò si aggiunga lo squilibrio tra nord e sud, tra il versante adriatico e quello tirrenico. Insomma, un bell’enigma per chi ci guarda da fuori. 

Ordine e conflitto: in Italia non mancano l’uno e l’altro?

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Hai perfettamente ragione. Mancano l’uno e l’altro. Direi che questa frase sintetizza bene il nostro problema. L’Italia, come è ben noto, non ha avuto né una Rivoluzione né una Riforma. Adesso non è più tempo di rivoluzione, ma anche di riforme se ne vedono poche. La costituzione del politico in Italia, come si è stratificato nel tempo, strutturato su due poli radicalmente contrapposti su tutto, non consente quel minimo comun denominatore che un progetto riformista richiede. Il problema non è quello della mancanza di un “centro”, come a volte si dice, ma la mancanza di un confronto netto tra culture politiche diverse. Per esempio, dove è finita la cultura cattolica italiana? E quella autenticamente socialista? Paradossalmente, non appare neanche una corrente autenticamente liberale. Da qui, da questa assenza di culture politiche, nasce sia l’assenza di ordine che di conflitto.

Il governo Meloni sta facendo quel che deve o quel che può?

Quel che può, forse anche meno di quello che potrebbe. Manca, per esempio, un impegno sociale che non è assente nella tradizione della destra. Detto questo, distinguerei tra Meloni e il suo governo. La prima è una professionista politica seria, che ha studiato e imparato, capace di comunicare. Il governo, con pochissime eccezioni (Tajani, Giorgetti e qualche altro), è molto modesto. Ciò spiega perché i Marcello Veneziani o i Giordano Bruno Guerri non abbiano voluto farne parte. In più Meloni ha avuto alcune fortune – il disastro francese e tedesco, soprattutto, rispetto al quale l’Italia si trova in una posizione migliore. Un vantaggio che Meloni è stata abile a sfruttare con una politica spregiudicata dei “due forni” in Europa. Ma è un vantaggio molto relativo, dal momento che senza Francia e Germania l’Europa non esiste. 

Qual è il libro più interessante che hai letto nel 2024 e perché?

Non saprei, ne leggo troppi. Recentemente sono stato molto colpito dalla raccolta dei quaderni di Antonin Artaud, curato da Lucia Amara per Neri Pozza, col titolo “Se questo corpo è un uomo”. È sconvolgente come la sua “follia” faccia parte della nostra vita, della nostra esperienza interiore ed esteriore, corporea. Ma non aggiungo altro: va letto e interpretato singolarmente da ogni lettore.

Che cosa ti manca dell’Università?

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Direi niente. Il suo declino è evidente. Mentirei se dicessi che mi mancano i colleghi o le lezioni. Non ho mai ricoperto incarichi istituzionali. Ho sempre privilegiato la lettura e la scrittura – esattamente ciò che continuo a fare. 



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