Opinioni | Giovani e laureati. Ma quale futuro?

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Una delle notizie di questi giorni riguarda l’analfabetismo funzionale degli italiani, che è cosa ben peggiore dell’ignoranza nozionistica. Perché se si può vivere bene pensando che Mazzini fosse un politico della Prima Repubblica, ritenere che un culturista sia una persona di cultura è la metafora della scarsa capacità di comprendere l’essenza di ciò che si legge o ascolta.
Poiché ciò pare affliggere il 35% degli italiani tra 16 e 65 anni, rispetto al 26% della media europea, pur essendo in buona compagnia dovremmo affrontare la questione. Perché sia successo è semplice: l’eccessivo livello di sotto-istruzione. Al netto del fatto che il rapporto studenti/insegnanti fino alla scuola superiore è nel miglior quartile europeo, lo stipendio dei nostri insegnanti resta il 70% di quello degli spagnoli e il 45% dei tedeschi. Questo divario non deve sorprendere: si investe in ciò in cui si crede e il nostro Paese non ha considerato l’istruzione uno dei pilastri su cui poggiare il proprio sviluppo di lungo periodo.

Negli anni 50, l’introduzione dell’obbligo scolastico a 14 anni ha ridotto gli analfabeti dal 13% all’8% nel 1961 e al 1,5% nel 2001. Parallelamente sono aumentati gli italiani con titoli di studio: nel 1951 il 3% era diplomato e l’1% laureato, nel 2001 la percentuale con diploma era del 25% e con laurea del 7%, mentre nel 2021 il 65% aveva un titolo secondario superiore e il 27% era laureato. Però, nello stesso anno la media europea di laureati era il 42%. Questa progressione positiva, se confrontata con il resto dell’Europa, mostra un evidente limite.




















































Infatti, i 15 anni che dal dopoguerra hanno condotto allo straordinario boom economico hanno visto un incremento del livello di istruzione primaria e secondaria, ma non terziaria, cioè post-diploma di scuola superiore, in linea con la strategia di rapida ricostruzione del Paese. Però, non aver compreso l’importanza della formazione terziaria per lo sviluppo di lungo periodo, cosa al tempo forse impossibile per le nostre condizioni sociali, ci ha tenuti alla periferia della crescente competizione internazionale tra le accademie, nella quale restiamo tuttora in posizioni mediocri. Tra i risultati, pochi laureati, dottorati poco competitivi, insufficiente trasferimento tecnologico. Tutto questo ha contribuito alla percezione, prevalente negli strati più disagiati della società, che continuare ad investire in formazione sia poco utile.
Nonostante tutti i parametri indichino che studiare è senza dubbio il migliore degli investimenti perché si trova lavoro prima e si è più pagati, oltre l’11% dei giovani italiani tra 18 e 24 anni oggi abbandona il percorso formativo, con la solita percentuale molto maggiore nelle regioni del Sud, specchio di un’iniquità intollerabile.

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È un peccato, perché abbiamo eccellenti potenzialità. Un esempio viene dall’analisi di due ricercatori italiani, La Porta e Zapperi, pubblicata su Nature, che dimostra che nel decennio 2010-2020 quasi 1.000 italiani con laurea e dottorato ottenuti in Italia sono stati assunti in università americane, il 35% dei quali nel ristretto gruppo delle più prestigiose il cui accesso è stato possibile a meno del 10% di docenti provenienti da vari atenei americani.
Quindi il nostro sistema di formazione terziaria ha ottime capacità di produrre accademici e ricercatori ma non è competitivo nell’offerta di lavoro per gli stessi che ha formato. Non sorprende perciò che presenza di docenti internazionali nelle nostre università sia dell’1% e che siamo poco attrattivi anche per gli studenti internazionali il cui numero negli ultimi 10 anni, pur raddoppiato da 40 a 80 mila, resta il 6% rispetto al 12% dei Paesi europei.
Nei fatti, nessuno dei governi che nei decenni si sono succeduti ha dato segni di credere che investire nel nostro sistema di formazione accademica porti vantaggi a lungo termine, anche se ci sono innumerevoli evidenze che, dove è competitivo, sostiene la crescita economica attraverso la creazione di posti di lavoro e l’aumento dell’innovazione. Il fatto che la spesa italiana per la formazione terziaria sia rimasta intorno allo 0.8% del Pil tra il 1995 e 2020, un terzo rispetto alla media europea, mentre in Germania, Francia e Regno Unito è passata dall’1% al 1,5%, rispecchia il disinteresse politico.

Ci sono altri numeri che portano un po’ di ottimismo. La percentuale di laureati nella fascia 25-44 anni è oggi sovrapponibile alla media europea. Ciò significa che sempre più giovani avranno buone possibilità di trovare lavori gratificanti e ben pagati. Dove? Questa è una domanda che la politica dovrebbe farsi. La risposta implica affrontare la questione con una visione strutturale e non elettorale, sapendo che se questo investimento diventa patrimonio collettivo i frutti si vedranno a lungo termine ma potranno riservare la sorpresa di rendere giustizia ai culturisti, di cui si potrà finalmente dire che possono essere anche persone di cultura.

28 dicembre 2024



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