L’illecita cura dei morti: attenzione alle speculazioni


In questo approfondimento l’Avvocato Maurizio Lucca fornisce alcuni interessanti chiarimenti legati alle speculazioni sulla cura dei morti e su quando essa diventa illecita.


Nell’erogazione di servizi pubblici, la cura dei morti (servizio pubblico generalmente erogato dalle Aziende sanitarie) dovrebbe costituire un’attività aliena da speculazioni, attenta al contesto di fragilità, invece di costituire l’opportunità per “arrotondamento” (procacciamento) indebito da parte del personale infedele; personale disposto ad espletare il servizio nella camera mortuaria, agevolando gli operatori economici (imprese di pompe funebri) nell’individuare i clienti: una pratica malsana, non infrequente alle cronache giudiziarie.

I fatti

Un’Azienda sanitaria segnalava alla Procura erariale una dettagliata denuncia di danno erariale, già oggetto di procedimento penale concluso con condanne di patteggiamento (inchiesta denominata “Mondo sepolto”, di cui ai reati di associazione a delinquere, corruzione, anche tentativo; indagine avviata a seguito dell’attività di un whistleblower), a carico di alcuni dipendenti della medesima Azienda addetti alla camera mortuaria.

Nello specifico:

  • procedimento disciplinare per i fatti commessi, oggetto di ampio risalto nella stampa locale e nazionale, esponendo il vincolo di solidarietà criminale che li legava tra loro nella gestione dell’illecito e delle ditte operatrici;
  • disvelamento dell’esistenza di una stabile organizzazione finalizzata alla commissione di una serie di delitti di corruzione (attività ultraventennale): segnalazione alle imprese funebri corruttrici delle persone decedute, con veicolazione dei familiari verso le stesse;
  • attività illecita remunerata in danaro (importo che oscillava tra i 200 e i 220 euro per ogni salma, oltre a 50 euro per la vestizione della medesima, con materiale dell’Azienda sanitaria) o altre utilità (il procedimento penale evidenziava il versamento di una mensilità pagata dalle imprese corruttrici, a prescindere dai servizi funebri venduti), per il compimento di atti contrari ai doveri d’ufficio e in aperta violazione dei doveri loro imposti in quanto pubblici dipendenti.

Tutti i dipendenti coinvolti venivano, all’esito del procedimento disciplinare, licenziati senza preavviso.

La difesa

Nelle difese si deduceva:

  • ai sensi dell’art. 445, comma 1 bis, c.p.p. (emerso dalla c.d. riforma Cartabia), la sentenza penale di patteggiamento non abbia efficacia in sede di giudizio per danno erariale;
  • i comportamenti in uso consistevano in una prassi consolidata e mai rimproverata dal datore di lavoro, peraltro trattandosi di modeste regalie, consentite dal Codice di comportamento, espressione di gratitudine e come valutazione positiva dei servizi;
  • una gravissima disorganizzazione aziendale, con il compiacente silenzio degli organi incaricati del controllo che consentiva al fenomeno corruttivo di assumere quel carattere totalizzante e la persistenza nel tempo (ossia la mancanza di una misura di prevenzione della corruzione, dove tale rischio non può che presentarsi come probabile ed elevato);
  • un orientamento giurisprudenziale secondo il quale – in tema di corruzione – la mera accettazione da parte del pubblico agente di un’indebita utilità a fronte del compimento di un atto discrezionale – e dunque la violazione del generale principio di imparzialità – non integra necessariamente il reato di corruzione propria, dovendosi verificare, in concreto, se l’esercizio dell’attività sia stato condizionato dalla “presa in carico” dell’interesse del privato corruttore, comportando una violazione delle norme attinenti a modi, contenuti o tempi dei provvedimenti da assumere e delle decisioni da adottare, ovvero se l’interesse perseguito sia ugualmente sussumibile nell’interesse pubblico tipizzato dalla norma attributiva del potere, nel qual caso la condotta integra il meno grave reato di corruzione per l’esercizio della funzione [1].

Il danno erariale legato all’illecita cura dei morti

La sez. giurisdizionale Emilia Romagna della Corte dei Conti, con la sentenza n. 103 del 12 dicembre 2024, interviene per condannare il personale dell’Azienda sanitaria del danno arrecato dalle condotte illecite.

Le richieste del Requirente (tutti a titolo di dolo, con l’applicazione del vincolo di solidarietà passiva tra i convenuti, aspetto accolto dal Giudice erariale):

  • pregiudizio all’erario sotto il profilo delle retribuzioni indebitamente percepite nei periodi in cui è comprovato che siano state realizzate le condotte delittuose (sub-species danno da disservizio);
  • danno patrimoniale da illecito utilizzo di beni aziendali, tenuto conto dei costi sostenuti e documentati dall’Azienda;
  • danno da immagine.

I fatti – nella loro oggettiva consistenza – ledono le regole principali di condotta del dipendente pubblico: il dovere di lealtà e correttezza, nonché i principi costituzionali di buon andamento e imparzialità dell’Amministrazione e di tutela dell’interesse pubblico (ex art. 97 Cost.), oltre che di disciplina ed onore (ex comma 2 dell’art. 54 Cost.), da aggiungersi il Codice di comportamento, con l’asservimento costante delle funzioni pubbliche agli interessi egoistici privati.

Il merito

Nella sua essenzialità, il Collegio stabilisce in via preliminare:

  • il danno da indebita percezione delle retribuzioni in violazione del sinallagma contrattuale è stato saldamente ancorato alla retribuzione mensile, quale parametro per una ragionevole determinazione equitativa;
  • trattandosi di una ipotesi di responsabilità dolosa, tutti i condannati sono tenuti in solido a rifondere per intero il danno all’Amministrazione, salvo poi agire in via di regresso nei confronti degli altri corresponsabili;
  • la quantificazione del danno all’immagine è stata ancorata al criterio presuntivo, salvo prova contraria, che si calcola nel doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale o altre utilità illecitamente percepite dal dipendente (il criterio del duplum), rilevando che seppure la dazione, ovvero la prova del prezzo della corruzione è stata dimostrata, la Procura ha inteso seguire la valutazione equitativa del danno, in ragione della partecipazione nello svolgimento dell’attività delittuosa in un clima di reciproca collaborazione;
  • trattandosi di una fattispecie di danno all’immagine e da disservizio conseguente ad un reato, posto in essere con un comportamento doloso, la prescrizione decorre, come per legge, dalla configurazione definitiva del danno e dalla sua conoscenza conseguente agli accertamenti finali confluiti prima nella ordinanza del GIP e poi nelle risultanze delle sentenze penali, non maturando la prescrizione.

Nel merito, la richiesta attorea viene parzialmente accolta (avendo dedotto le somme già versate all’Amministrazione) con i seguenti profili:

  • sussistenza del rapporto di impiego pubblico e condotte avvenute in vigenza del rapporto, nonché della condotta fraudolenta, basata sull’accordo corruttivo delle parti volto a ricevere ingiusti vantaggi economici o altre utilità per i servizi resi;
  • la sentenza penale di applicazione della pena ex 444 c.p.p., pur non configurando una sentenza di condanna, presuppone comunque una ammissione di colpevolezza, poiché esonera la controparte dall’onere della prova e costituisce un importante elemento di prova per il giudice di merito, il quale, ove intenda discostarsene, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione [2];
  • ne deriva che, anche nel nuovo testo normativo della riforma Cartabia [3], la sentenza di patteggiamento è inefficace nel giudizio amministrativo contabile quanto al profilo del giudicato e alla valenza probatoria, rimane pienamente valutabile il profilo probatorio idoneo a fondare la condanna risarcitoria nel processo erariale [4];
  • in dipendenza di ciò, sotto questo ultimo aspetto, si tratta non tanto limitare gli effetti extra penali del provvedimento di applicazione della pena su richiesta delle parti, quanto, come previsto dal legislatore, di un regime di circolazione degli elementi probatori tra i vari processi (penale, civile, amministrativo e contabile), teso a non far disperdere, in armonia con il principio della ragionevole durata del processo e del buon andamento della sistema giustizia, l’attività compiuta dai vari plessi giudiziari, disciplinando la loro valenza a seconda del livello di accertamento raggiunto: accertamento raggiunto nel caso di specie, con gli apporti istruttori raccolti dalla polizia giudiziaria, comprese le diverse testimonianze e i riconoscimenti di responsabilità: apporto probatorio depositato dalla Procura erariale [5];
  • non viene accolta la difesa che si fonda sul sentito dire, ovvero sulla tolleranza della condotta, in evidente violazione alle regole di lealtà e correttezza che il dipendente pubblico deve tenere nello svolgimento delle sue mansioni (nel caso specifico, non sono rispettate, comprese le regole del Codice di comportamento «perché le funzioni pubbliche non possono essere subordinate ad interessi privati»);
  • la sentenza penale di patteggiamento resta, in ogni caso, equiparata a una pronuncia di condanna ai fini dell’ammissibilità dell’azione per il risarcimento del danno all’immagine, con inapplicabilità del secondo capoverso del comma 1-bis (della cit. Riforma) alla vicenda del danno all’immagine [6];
  • le condotte assunte hanno rotto il sinallagma che li legava all’Amministrazione di appartenenza, rendendo di fatto non giustificata parte della spesa sostenuta per le remunerazioni erogate dall’Azienda sanitaria (danno da disservizio quantificato in via equitativa), oltre il danno del materiale indebitamente utilizzato (ai fini della vestizione e della tanato-cosmesi delle salme);
  • per la lesione all’immagine è stato provato il clamor fori.

Nella sostanza viene accolta in toto la richiesta della Procura erariale.

Violazione del minimo etico

La lettura della sentenza non lascia ombre sulle condotte assunte con l’abuso della funzione concretizzata nel perseguimento di fini egoistici, traducendosi in un nocumento all’Amministrazione, attraverso lo sviamento del fine della prestazione lavorativa: una consapevole e forte violazione alle regole del c.d. minimo etico, con un ruolo pro-attivo nell’attitudine criminale, nel segnalare ai familiari le imprese di pompe funebri e nel percepire il prezzo del mercimonio, anzi ponendo questi operatori di fronte alla scelta di pagare o di accettare il rischio di una compromissione della qualità del servizio che offrivano.

Un evergreen immutato, un baratro di tutti i principi valoriali dell’agire pubblico, quegli obblighi di servizio amorevolmente calpestati, vendendosi ad un (piccolo) prezzo, quasi a voler giustificare l’ingiustificabile, perdendo ogni comparabile dignità, servi (da servire) di una insana clientela: quae causa, quae ratio est?.

Note

[1] Cass. pen., sez. VI, 23 settembre 2024, n. 35687.

[2] Cass. civ., sez. III, 30 luglio 2018, n. 20170. La sentenza penale di patteggiamento, riconoscendo il reato costituisce un idoneo elemento di valutazione in ordine alla commissione del reato, Cass., sez. II, Ordinanza 7 marzo 2022, n. 7363.

[3] L’espresso riferimento alla voluntas legis di ridurre gli effetti penali discendenti automaticamente da una sentenza di condanna o di patteggiamento secondo “una miriade di ipotesi previste dalle leggi speciali”, porta a ritenere – da un punto di vista sistematico – che il riferimento contenuto nel secondo periodo del comma 1-bis alle «disposizioni di leggi diverse da quelle penali che equiparano la sentenza prevista dall’articolo 444 comma 2, alla sentenza di condanna» possa – in definitiva – intendersi secondo un’accezione ampia di “ordinamento penale”, comprensivo sia delle disposizioni penali sostanziali che processuali, tra cui specificamente il terzo periodo del comma 1-bis dell’art. 445 c.p.p., Corte conti, sez. giur. Lombardia, 19 febbraio 2024, n. 31.

[4] Corte conti, sez. Appello Sicilia, 4 gennaio 2024, n. 2.

[5] Sulla utilizzabilità nel giudice contabile dei fatti e documenti formati in sede penale da valutare liberamente, cfr. Corte conti, sez. II Appello, n. 285 del 2003; sez. Appello Sicilia, n. 66 del 2004; sez. III Appello, n. 371 del 2005; sez. I Appello, n. 516 del 2011 e n. 18 del 2012; sez. II Appello, n. 38 del 2014 e n. 52 del 2014.

[6] Cfr. Corte conti, sez. giur. Toscana, sentenze n. 307/2023 e n. 46/2024.



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