La concezione autoritaria del diritto. Nordio: la giustizia si fa con la forza

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Sessantaduemila persone detenute a fronte di una capienza regolamentare di cinquantunomila; un tasso di crescita della popolazione carceraria in continuo aumento, così come il tasso di affollamento medio; in diminuzione invece, in rapporto alle presenze, il personale di polizia penitenziaria; celle prive di spazio vitale; ottantanove suicidi, il numero più alto di sempre. Sono alcuni dei dati contenuti nel Report di fine anno sulle carceri pubblicato in questi giorni da Antigone, e sono dati perfettamente allineati alla concezione del diritto e della giustizia che attraversa i nostri tempi: un diritto fondato sulla forza e sul controllo, una giustizia inflessibile e votata alle punizioni più severe.

Lo stesso ministro della giustizia, di recente, ha compiuto affermazioni molto significative a questo riguardo. Lo ha fatto rispondendo all’interrogazione parlamentare presentata da un gruppo di deputati avente ad oggetto il calendario del 2025 della Polizia penitenziaria. Debora Serracchiani, in particolare, aveva sottolineato la violenza veicolata da certe foto (ad esempio un «addestramento commesso a terra e contenimento fisico di una persona con tre poliziotti addosso», nel mese di marzo; «agenti in tenuta antisommossa con manganelli, scudi e caschi in bella vista», nel mese di aprile; un «agente che spara al poligono» nel mese di giugno); e gli aveva chiesto ragione di queste raffigurazioni. Nordio le ha risposto quasi stupito: non è forse vero che la giustizia, da sempre, «reca la bilancia e la spada» nell’immagine che offre di sé? E non è altrettanto vero, d’altronde, che la spada oggi sia stata sostituita dalle «armi da fuoco»? È «l’evoluzione tecnologica»: niente di più e niente di meno.

Ma ora il punto non è tanto quello di sindacare nel merito le affermazioni del ministro, né quello di negare che anche il momento secondario, e cioè il momento della forza e della punizione, appartenga in effetti al diritto come il suo momento primario, consistente nel comportamento richiesto. Il punto è che una concezione autoritaria venga presentata come l’unica possibile, a sostegno e giustificazione di politiche anche carcerarie sempre più repressive. Come se, per legittimarsi, il diritto avesse sempre necessariamente bisogno della forza, in ogni dove; come se a connotare il diritto fosse una natura di per sé intimidatoria, se non addirittura persecutoria.

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È lo spirito del tempo, d’accordo, è l’idea pervasiva. È la medesima idea espressa anche da Ernesto Galli della Loggia in un intervento di qualche settimana fa sul Corriere della Sera al quale ha replicato benissimo, su queste stesse pagine, Roberta De Monticelli. L’intervento di Galli della Loggia era specificamente riferito al diritto penale internazionale, ma i concetti non cambiano: non c’è legge che tenga, la forza e la violenza sono una necessità (all’interno come all’esterno delle carceri), e chi pensa il contrario è solo un’anima candida. Come a dire: è la realtà, bellezza, è inutile sognare.

Ma ecco, il punto è precisamente questo: non si tratta di sognare bensì, come ha sottolineato Roberta De Monticelli, di non «ridurre le norme ai fatti». Una concezione autoritaria del diritto non è l’unica possibile. Ne esiste anche una diversa, che interpreti il diritto in un senso mite e pacifico: come relazione e reciprocità, in primo luogo, anziché come esclusione o come conflitto permanente. Anzi: è semmai proprio questa la concezione corrispondente alla funzione più autentica e più nobile del diritto, la quale dovrebbe essere proprio quella di contribuire a costruire relazioni sociali prima ancora che di sanzionare e punire. Occorre solo provare a cambiare lo sguardo, o a spostarlo: anche se qui, certo, a venire in gioco non è solo il diritto ma anche una concezione piuttosto che un’altra del vivere sociale, della convivenza civile. In definitiva, della vita.

Vogliamo chiamarla utopia? Perché no? Coltivare utopie non significa in fondo resistere all’idea secondo cui il mondo che abitiamo sia l’unico in cui sia possibile abitare? E non è forse questo ciò che dovrebbe fare la politica, ciò che sarebbe bello che facesse?



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