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Nell’ottobre dell’anno scorso, dopo anni di tentativi falliti di portare al tavolo delle trattative la Tesla, una casa automobilistica notoriamente antisindacale, in Svezia i dipendenti dell’azienda hanno fatto sciopero. Nel frattempo, nella vicina Finlandia, per gran parte dell’anno scorso sono stati indetti scioperi settoriali a rotazione, in risposta ai tentativi del nuovo governo di destra di limitare i diritti fondamentali dei lavoratori e di tagliare il welfare.
I Paesi nordici, con i loro modelli di mercato del lavoro basati sui contratti collettivi, erano stati a lungo considerati come dei fari di democrazia politica e industriale, in quanto sembravano capaci di garantire stabilità, competitività ed equità sociale. Ma questa immagine si è ora offuscata e i lavoratori di tutto il mondo, che devono affrontare a loro volta le stesse sfide, hanno manifestato la loro solidarietà ai loro omologhi nordici.
In Ungheria, il governo autoritario di Viktor Orbán ha limitato in modo significativo il diritto di sciopero, mentre nella Repubblica Ceca alcune misure neoliberiste ispirate a una politica di austerità hanno colpito duramente i diritti dei lavoratori. Nel frattempo, il governo di centrodestra greco ha resistito alle richieste di riduzione dell’orario di lavoro e ha legiferato per consentire ai datori di lavoro di imporre unilateralmente una settimana lavorativa di sei giorni, scatenando l’indignazione dei lavoratori e dei sindacati.
In Francia, in seguito alle massicce proteste dello scorso anno e agli scioperi contro la riforma pensionistica del presidente Emmanuel Macron, alcuni leader sindacali si sono ritrovati a dover rispondere in tribunale all’accusa di aver turbato l’ordine pubblico. In Belgio, invece, è stata necessaria una mobilitazione di massa dei sindacati e delle organizzazioni della società civile per sconfiggere una proposta di legge che limitava il diritto di protesta.
Il Global Right Index 2024, prodotto dalla International Trade Union Confederation, illustra i crescenti attacchi ai diritti dei lavoratori e ai sindacati europei e i pericoli che essi corrono. Questi attacchi sono stati accompagnati da un aumento dell’autoritarismo, dalla crescente diffusione di idee di estrema destra e dall’influenza negativa esercitata delle imprese sulle scelte politiche.
Ma tutto ciò non è avvenuto nel vuoto. L’iperglobalizzazione ha alimentato uno storico indebolimento dell’organizzazione del lavoro in tutto il mondo. In Europa, il consenso sul welfare del Secondo dopoguerra è stato minato sia dall’interno sia dall’esterno. Le imprese multinazionali hanno creato delle estese catene globali di approvvigionamento che compromettono il potere di contrattazione dei lavoratori in ogni settore.
Il conseguente calo della quota dei salari e la riduzione o la stagnazione dei salari reali hanno prodotto profitti stellari. Le politiche di austerità hanno ridotto all’osso le reti di protezione che garantivano la sicurezza sociale, hanno aumentato il numero delle persone che sperimentano condizioni di lavoro precarie e hanno indebolito gli ispettorati del lavoro. Di conseguenza, in quasi la metà dei Paesi dell’Unione europea sono aumentati gli incidenti mortali che avvengono durante lo svolgimento delle proprie mansioni.
L’austerità porta con sé conseguenze politiche e costi economici. Un’analisi di duecento diverse elezioni regionali europee ha mostrato l’esistenza di un legame diretto tra il risanamento dei conti dopo la Grande recessione e il successo elettorale degli estremisti politici. A un minore rispetto dei diritti dei lavoratori è strettamente correlato un aumento delle disuguaglianze economiche e dell’instabilità politica. I diritti dei lavoratori sono il canarino nella miniera della democrazia.
Fortunatamente, questo canarino non è ancora senza fiato. Ed è quindi possibile imboccare un’altra strada. Non si può più applicare un approccio business as usual: l’ascesa dell’estrema destra nelle elezioni europee e in molte recenti elezioni nazionali e locali deve servire da campanello d’allarme e l’Europa deve risolvere con urgenza le insicurezze economiche e sociali che sono alla base della rabbia e della paura che serpeggiano sempre più nelle nostre società.
Un antidoto a questa instabilità può essere individuato in maggiori investimenti nelle infrastrutture sociali e in una democrazia industriale più forte. Le vittorie in alcune rilevanti iniziative di organizzazione dei lavoratori e in importanti lotte contrattuali – come, ad esempio, la sindacalizzazione dei magazzini di Amazon in Europa o lo sciopero divenuto noto come “Stand Up” indetto negli Stati Uniti dagli United Auto Workers per ottenere il miglioramento dei salari e delle condizioni di lavoro – infondono nei sindacalisti di tutto il mondo l’energia necessaria per continuare le loro lotte.
Tuttavia, non è sufficiente ottenere delle vittorie una tantum. È tempo di un nuovo contratto sociale, basato su una maggiore democratizzazione della nostra economia. La ricetta fallimentare dell’austerità, della flessibilità del mercato del lavoro e delle privatizzazioni non farà che aggravare i problemi che abbiamo di fronte.
L’inclinazione per il “a breve termine” da parte delle multinazionali – che si manifesta nel taglio dei costi, nei dividendi eccessivi e nel riacquisto di azioni a discapito del reinvestimento dei profitti – ha ulteriormente indebolito il dinamismo e la resilienza delle nostre industrie.
È dimostrato che una forte democrazia industriale ha un notevole valore economico. Alcuni studi hanno infatti determinato che i Paesi con un alto livello di democrazia sul lavoro hanno tassi di occupazione più elevati, migliori salari (con una conseguente minore disuguaglianza per quanto riguarda il reddito), una maggiore produttività per dipendente e una quota più alta del Prodotto interno lordo che viene destinata alla ricerca e allo sviluppo.
Nel frattempo, questi stessi studi indicano anche che le aziende che applicano un’effettiva democrazia del lavoro e coinvolgono i sindacati ottengono dei risultati migliori dal punto di vista sociale e ambientale, sono più resistenti alle turbolenze esterne, investono di più e hanno un ruolo di primo piano per quanto riguarda la sostenibilità. Niente male, no?
L’Europa ha bisogno di una politica industriale che sia all’altezza delle sfide del nostro tempo e preveda che chi voglia ottenere finanziamenti e appalti pubblici soddisfi sempre dei requisiti sociali con l’obiettivo di garantire la creazione e il mantenimento di posti di lavoro di buona qualità e la partecipazione dei lavoratori a tutti i livelli, a partire dalla fabbrica. Gli strumenti attraverso cui raggiungere questi risultati sono una transizione giusta e un commercio equo e regolamentato, libero dallo sfruttamento.
Per raggiungere questi obiettivi è necessario creare delle alleanze politiche. Alcune delle vittorie progressiste ottenute di recente dai lavoratori della gig economy, l’aumento dei salari minimi e l’introduzione in Europa di una maggiore trasparenza e di una maggiore responsabilità nelle supply chains devono essere implementate in modo efficace, e dobbiamo far sì che le nostre alleanze progressiste lavorino per mettere fuori legge gli intermediari che sfruttano i lavoratori e per rafforzare la contrattazione collettiva.
Il rinnovamento democratico è urgente: i lavoratori devono trarne dei dividendi e devono avere la possibilità di partecipare al processo decisionale per essere padroni del proprio destino. È così che possiamo difendere la democrazia nei luoghi di lavoro, nella società e a livello globale.
© 2024 THE NEW YORK TIMES COMPANY AND JUDITH KIRTON-DARLING
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