Sabino Chialà – Commento al Vangelo di mercoledì 25 Dicembre 2024 –


Guardare il mondo dalla mangiatoia e non dal trono

“Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama” (v. 14). Sono queste le parole che gli angeli apparsi nel cielo notturno di Betlemme rivolgono a un gruppo di pastori intimoriti… Intimoriti da quello che vedono e odono: una luce che li avvolge e una voce che li invita alla gioia.

Ma questa sera le medesime parole sono rivolte anche a noi, qui ed ora. Anche noi le abbiamo ascoltate, e non come parole dette ad altri, ma – questo è il senso di una celebrazione liturgica! – come parole dette a noi, che siamo qui riuniti a celebrare il grande evento del Dio che si fa uomo, dell’infinitamente grande che si fa infinitamente piccolo, del senza-tempo che entra nella nostra storia. Un evento che certamente ci supera, e che noi possiamo solo contemplare e accogliere.

Anche a noi qui riuniti i messaggeri divini rivolgono questo annuncio! A noi immersi non nella notte di Betlemme, ma nelle notti che ciascuno porta in cuore e che la nostra umanità attraversa! A noi impauriti, come i pastori di Betlemme, da parole tanto alte che risuonano in una realtà così piena di contraddizioni, che risuonano nelle nostre vite così spesso contraddette!

Sì, è a noi che questa notte sono rivolte le parole udite dai pastori di Betlemme: “Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è il Cristo Signore” (v. 11). È nato “per noi”… per farci dono della pace e per indicarcene la via! Per insegnarci a vivere in questo mondo, come ci ha ricordato l’apostolo Paolo nella lettera a Tito. Più precisamente, per insegnarci “a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà” (Tt 2,12). Tre qualità che hanno a che fare con le nostre relazioni: la sobrietà, che argina la nostra voracità distruttiva nei confronti della creazione; la giustizia, che ci chiede rispetto per il diritto dell’altro e della sua dignità; la pietà, di chi sa riconoscere il Creatore e sa rendere grazie per i doni da lui ricevuti.

Nel bambino nato a Betlemme riconosciamo innanzitutto il segno della benevolenza di Dio, della sua compassione e del suo desiderio di salvezza che si realizza pienamente nel Figlio, Dio e uomo. Salvezza che ci dà la pace, come promesso dagli angeli ai pastori, perché lui è il Principe della pace.

Ma in quel bambino ci è anche indicata la via per la quale – per quanto concesso a degli esseri umani – possiamo anche noi camminare verso la pace. Quella pace di cui abbiamo così tanto bisogno, oggi come sempre! Oggi più che mai! Come dice Beda il

Venerabile, “per il mistero della sua incarnazione, egli diventa la via per la quale ci conduce” (Beda il Venerabile, Spiegazione del Vangelo di Luca I,2,7). Con la sua carne, si fa egli stesso via da percorrere. Una via che comincia qui, in questo racconto che ancora una volta vogliamo ascoltare e meditare.

Luca inizia ricordando i grandi della terra del suo tempo. Nomi che contano, perché ritenuti importanti e perché esercitano il loro potere su altri, contandoli come numeri, come si dice nel nostro racconto. Nomi che decidono le sorti dell’umanità: sono Cesare Augusto, che ordina un censimento “di tutta la terra”, dice Luca con una certa enfasi (v. 1) e Quirinio, “governatore della Siria” (v. 2). Ecco un primo spaccato di umanità. Una via percorribile e percorsa, per secoli, e oggi ancora da quanti determinano le sorti di popoli interi.

Accanto a questa scena ve n’è poi una seconda: una giovane coppia cresciuta a Nazaret che, per obbedire all’ordine dell’autorità, deve affrontare un viaggio disagevole e rischioso. Giuseppe e con lui Maria, incinta e prossima a partorire. Ma i grandi della terra, coloro che detengono il potere, raramente calcolano i costi delle loro manovre: sono rischi collaterali! Le persone vengono dopo: prima ci sono le strategie. Giuseppe obbedisce. Si mette in viaggio. Giunge a Betlemme e, proprio lì, si compiono i giorni per Maria, che mette al mondo un bambino, il primogenito, in una situazione di estrema precarietà, perché “per loro non c’era posto nell’alloggio” (v. 7).

Due spaccati di umanità! Due situazioni non molto diverse dalle nostre, ancora oggi: potenti che decidono e piccoli che obbediscono, o meglio… che subiscono! Potenti che fanno e disfano, perché sono nella posizione di poterlo fare, e piccoli cui è lasciata solo la libertà di pagarne le conseguenze.

Infine ci sono i pastori, che sembrano vivere in un mondo a parte: pernottano all’aperto, vegliano di notte, facendo la guardia al loro gregge (v. 8). Estranei alle manovre dei grandi e marginali rispetto a ogni consesso umano, a motivo del loro mestiere. Ma proprio a loro Dio indica una strada. A loro manda il suo messaggero, perché indirizzi il loro sguardo e i loro passi verso ciò che davvero conta, verso ciò che davvero salva. Ed essi obbediscono. Vanno a Betlemme, e lì contemplano quello che Luca chiama il “segno”: “Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia” (v. 12).

“Segno” è una parola importante, e che possiamo interpretare almeno in due direzioni! Quel bambino è “segno” perché indica la scelta operata da Dio, tra il potere dei grandi della terra e l’inermità degli umili. Ed è “segno” perché indica la via proposta all’uomo per trovare pace e salvezza.

In quel “bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia” c’è innanzitutto il segno della scelta di Dio. Per farsi prossimo all’uomo, per entrare nella storia, per salvare l’umanità, Dio non ha scelto la via di Cesare Augusto. Non è da lì che passa la salvezza. Ha scelto invece la via di un bambino inerme, figlio di poveri e partorito in una stalla. Non è un caso, ma una scelta strategica chiara e inequivocabile, che tuttavia tante (troppe volte) non abbiamo saputo o voluto riconoscere. L’abbiamo ridotta a mito degli inizi, l’abbiamo ornata di vuoto sentimentalismo, e quindi vanificata.

Ma poi in quel “bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia” c’è un’indicazione chiara per l’umanità: la via per la quale potrà trovare la tanto sospirata pace. Quella pace che gli angeli annunciano come possibile sulla terra “tra gli uomini”, come dice letteralmente il testo. Una pace che passa – come suggerito da Paolo – per la sobrietà, la giustizia e la pietà! Tre tratti che l’Apostolo vede riassunti nel Dio fattosi uomo.

La pace non è impossibile, neppure nel nostro mondo, neppure tra di noi, nelle nostre comunità… e il vangelo che abbiamo ascoltato ce lo ricorda con forza. Ma è necessario fare una scelta di campo, chiara e inequivocabile! È necessario scegliere accuratamente la prospettiva dalla quale guardare, valutare e agire.

C’è la prospettiva di Cesare Augusto, l’uomo che si faceva chiamare “dio” e che si comportava come un dio, contando gli esseri umani, disponendo di loro, spadroneggiando, come i grandi di questo mondo ancora fanno. E c’è la prospettiva di un Dio che si fa uomo, e piccolo; che entra nel mondo per la via dell’umiltà, e che ci invita a guardare questo nostro mondo da quella prospettiva.

E allora questa sera proviamo a immaginare che il bambino nato nella mangiatoia ci voglia invitare a un esercizio semplice ma dalle conseguenze rivoluzionarie, per noi e per il mondo: guardare ogni essere umano, ciascuno di noi, la realtà, il mondo, gli altri… a partire dal basso di quella mangiatoia e non dall’alto di chi ha il potere di vita e di morte su intere nazioni, di chi ha il potere di contare gli altri e di decidere la loro vita o la loro morte. Guardare il mondo dalla mangiatoia e non dal trono! Allora sarà possibile percorrere vie di pace, anche tra di noi, nelle nostre comunità, nelle nostre relazioni, nelle nostre società. Guardare dal basso e non dall’alto… Un esercizio semplice: solo questione di prospettiva!

Il Cristo è nato “per noi” anche per questo: per insegnarci un nuovo sguardo, l’unico che porta alla pace. Pace dentro di noi, pace tra di noi, pace in questo mondo, infiammato da troppe tensioni e guerre, da troppi deliri di onnipotenza… È nato per invitarci a rovesciare la prospettiva! In mezzo a tanti piccoli uomini che si credono

giganti, come Cesare Augusto, egli si fa piccolo, pur essendo il Figlio dell’Altissimo, per dirci che questa è via per la pace, e non ve n’è un’altra.

In questa notte santa, siamo dunque qui per accogliere la salvezza che il Dio fattosi uomo è venuto a offrire alla nostra umanità, segno della sua benevolenza e del suo amore. Ma siamo qui anche per cercare di fare spazio in noi al “segno” che quel bambino costituisce per le nostre vite, allo sguardo di quel mite che ci indica la via della pace, la via per diventare un po’ più umani, come ci ricorda Ambrogio di Milano quando dice:

Per questo egli volle essere un bambino, per questo volle essere un fanciullo, affinché tu potessi diventare pienamente uomo (ut tu vir possis esse perfectus). Egli fu stretto in fasce, affinché tu fossi sciolto dai lacci della morte. Egli nella stalla, per porre te sugli altari. Egli in terra, affinché tu raggiungessi le stelle. Egli non trovò posto nell’albergo, affinché tu avessi nei cieli molte dimore … Quella indigenza è dunque la mia ricchezza, e la debolezza del Signore è la mia forza.

(Ambrogio di Milano, Esposizione del vangelo secondo Luca 2,41).

Il Signore ci conceda, sull’esempio dei pastori, di andare a Betlemme piuttosto che salire le scale dei potenti; ci conceda di preferire la via del bambino a quella di Cesare Augusto, e questo mondo troverà un po’ di pace; e noi troveremo un po’ di pace!

Per gentile concessione del Monastero di Bose



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