Franco Bonatta, il partigiano che sognava un’Italia migliore – Cronaca

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BOLZANO. L’8 settembre 1943 hai 17 anni. Bolzano sta per essere occupata dai nazisti. Tuo padre Cesare ti prende da parte con tuo fratello Bruno e tua sorella Vera nel tinello della vostra casa sulla curva di via Rosmini, al civico 11. Vi ama più di ogni altra cosa al mondo. Dio solo sa quanto gli costi quello che sta per dirvi. Vi guarda dritto negli occhi. Non siete più dei ragazzi, e lo sapete bene. «Adesso – dice – dovete fare la vostra parte per salvare l’Italia da Hitler e Mussolini. Dovete prendere le armi».Bruno non ne avrà il tempo. Ma tu Franco, tu, lo farai.

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Ci sono vite che, come un fiume carsico, riemergono di continuo anche se, incredibilmente, solo nei ricordi degli amici sopravvissuti, dei figli, e della persone amate. Mentre scompaiono nella memoria di una comunità, e di una città, che invece dovrebbero onorarle.

Una di queste è sicuramente quella di Franco Bonatta, il partigiano Delfo, bolzanino fino al midollo, che un infarto si portò via a 69 anni l’ultima domenica d’avvento del 1994. Partigiano ma anche tante altre cose: ingegnere, scrittore, educatore, viaggiatore instancabile, informatico capace di intuire già negli anni ottanta del secolo scorso il potenziale pericoloso dell’intelligenza artificiale. Un uomo animato da forte passione civile e politica, con mille idee per la sua città (nella tesi di laurea prevedeva la realizzazione dei prati del Talvera). E in anticipo rispetto ai ritmi lenti e bacchettoni della società italiana. Una famiglia allargata ancora prima del referendum sul divorzio. Due matrimoni. Tre figli da due donne diverse.

La scelta

Franco nasce il 24 novembre 1925 a Bolzano. La sua famiglia è arrivata dal Trentino alla fine dell’Ottocento. Il padre Cesare e lo zio Augusto hanno fondato la Scuola Marco Polo. Sono piccoli editori, stampano, subito dopo l’annessione, i manuali bilingui per i carabinieri.

Una famiglia progressista, che subisce il fascismo. Franco e il fratello Bruno, detto Brunetto, maggiore di due anni, crescono in un ambiente aperto, culturalmente stimolante. Franco frequenta il liceo classico Carducci. È un provetto alpinista. Quando l’8 settembre ’43 tutto crolla, la sua vita, fino a quel giorno vissuta tutta sotto il fascismo, svolta. In un libro scritto nel 1985 lo racconta in presa diretta. Un documento eccezionale. «Cominciò tutto, quando la radio annunciò la firma dell’armistizio. Per chi non ha vissuto quel giorno, e quelli immediatamente seguenti, è difficile riuscire a capire che uomini tanto in alto nel potere e nei comandi militari, abbiano potuto rivelare tanta vigliaccheria, inettitudine, meschinità e stupidità. A Bolzano successe il caos, come dappertutto. Sul primo momento grande euforia per la fine della guerra. Poi la paura: cosa avrebbero fatto i tedeschi? Solo gli imbecilli potevano non intuirlo. Mio papà riunì la famiglia: ora ragazzi – disse con voce greve – comincia la nostra guerra. È giusto che anche voi facciate il vostro dovere. La battaglia può scatenarsi da un’ora all’altra, forse da un minuto all’altro. Prendete un po’ di roba e presentatevi alla caserma più vicina». Il discorso del padre non ammette repliche. È un’assunzione di responsabilità che mette in conto la perdita più grande: la morte dei figli. «Ricordo come fosse oggi l’espressione sgomenta della mamma e di mia sorella Vera. Ricordo la sorpresa, la paura e l’entusiasmo nostri. Non avevo ancora 18 anni, mio fratello 20. Stupore, perché mio padre era un uomo pacifico, estremamente pacifico, odiava la guerra e amava tanto noi. Paura, perché avevamo appena visto per le strade le figure trucide dei soldati tedeschi, carichi di bombe e di nastri di mitragliatori. Entusiasti, perché eravamo giovani, repubblicani, antinazisti».

Si presentano in caserma ma trovano l’esercito allo sbando totale. Nessuno decide, nessuno dà ordini.«Non ci vollero. Non c’era un domani. Stavano preparando la fuga, quel “tutti a casa” che in realtà riuscì a pochi. Misero più tempo loro a organizzare la fuga, che non i tedeschi a compiere la retata. Per alcune ore la notte fu piena di lampi, degli scoppi della battaglia e noi lì, sul tetto della casa di via Rosmini, a cercare di vedere cosa accadesse, con il rimorso di non partecipare alla cacciata dello straniero. Poi, quasi come per un comando, tutto si acquietò. Niente lampi, niente spari, solo ordini in tedesco. Altro che “cacciata dello straniero”. Lo straniero restava, i nostri se ne andavano, umiliati laceri, smarriti, pigiati dentro lunghi treni merci diretti nei lager oltre il Brennero. Se quella era la nostra guerra, l’avevamo cominciata proprio male. L’umiliazione fu grande, la vergogna più ancora: poche centinaia di tedeschi, con l’aiuto di quattro tirolesi, avevano messo in ginocchio, solo a Bolzano, migliaia di nostri soldati. No, non era il fascismo: eravamo noi italiani a non valere niente. In quella triste mattinata, nacque il bisogno di un riscatto ma non in tutti».

Il “dicembre nero”

La Resistenza con la “R” maiuscola ancora non è nata, ma Franco e Bruno hanno la consapevolezza storica che adesso tocca alla loro generazione costruire la nuova Italia. La guerra è una brutta bestia. È morte e macerie. E presenta subito il conto irreparabile che il padre temeva più di ogni altra cosa.Il 2 dicembre 1943 è un giovedì. Trentasette bombardieri americani scaricano 94 tonnellate di ordigni su Bolzano. Franco e Bruno scappano in cantina; i genitori e Vera riescono a raggiungere il rifugio antiaereo. Una bomba da 500 libbre centra in pieno la casa. Brunetto muore sotto le macerie, Franco viene estratto vivo per miracolo. Lo shock è talmente forte da lasciargli per tutta la vita un leggero tremolio delle mani. A ricordo eterno di un fratello e un figlio molto amato.

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«Mio padre già scottato da ciò che era accaduto l’otto settembre, straziato per la morte di Bruno, non se la sentì di rinnovare l’incitamento di quella sera. Ma io, quando arrivò il momento, me ne andai a fare la mia guerra anche se sapevo della loro pena. L’Italia era in fiamme dalle Alpi della Sicilia: era difficile limitarsi a fare da spettatore».

La promessa

Quando nella primavera del ’44 sale in montagna insieme all’amico fraterno Sandro Bonvicini, il padre Cesare fa un ex voto.

«Se fossi tornato vivo, tutte le sere avrebbe portato un’offerta per i poveri. Quella promessa la mantenne, giorno dopo giorno, anno dopo anno, finché visse, senza mai mancare una sola volta. Se gli capitava di dimenticarsene, si alzava dal letto, si rivestiva e usciva, anche a notte alta, per andare fino alla chiesetta di via dei Carrettai (oggi via Streiter, ndr), dove c’era una cassetta per le offerte all’esterno del grande portone. Così per 21 anni, fino alla sua morte».

Missione Vital

Franco Bonatta è protagonista di una delle pagine più gloriose della Resistenza nella nostra regione: la missione Vital. Un pugno di partigiani neanche ventenni (oltre a Bonatta, Enrico Pedrotti, Matteo Brunetti, Celestino Donini e Silvio Nicolussi), nascosti tra le grotte della Paganella e del Piz Galin sopra Molveno, per trasmettere agli alleati, in onde corte, tutti i movimenti dei tedeschi sull’asse dell’Adige. Fino al dicembre del ’44 la stazione radio trasmette oltre duecento messaggi dando le coordinate per i bombardamenti, inviando rapporti e informazioni. Un’attività rischiosissima. I tedeschi sanno dell’esistenza della postazione, ma non dove si trovi.

La rete clandestina (di cui fanno parte antifascisti del calibro di Andrea Mascagni e Senio Visentin), viene falcidiata: molti vengono arrestati e torturati, alcuni uccisi nel lager di via Resia, altri sono costretti a scappare.

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I nazisti conoscono il nome dei “ragazzi della radio”, su di loro pende una condanna a morte. La caccia è pressante. Il rischio di delazione, continuo.Il 28 agosto del ’44 un aereo americano viene abbattuto dalla Flak, la contraerea tedesca, sopra la Paganella. I nove uomini a bordo riescono a paracadutarsi. Alcuni vengono subito catturati, altri riescono a raggiungere la Svizzera. Da sotto, Bonatta e i suoi, vedono Leonard “Lee” Palser, 24 anni, planare sul bosco. Lee Palser, un newyorchese con la faccia da divo di Hollywood, era il mitragliere di bordo. Diventa un membro della Missione Vital. E un amico fidatissimo dei cinque. In questo periodo, Bonatta va e viene per raccogliere le informazioni. Ogni movimento moltiplica il rischio di essere preso e torturato. Il padre, quando può, lo aiuta sempre. «Una sera, stanco, disperato, intirizzito, ricercato perché condannato a morte, gli avevo fatto sapere che lo avrei aspettato vicino al ponte di Marlengo, pregandolo di portarmi qualcosa da mangiare. Si precipitò con mezzo litro di latte e delle patate lesse. Mi diede il suo cappotto di lana. Potemmo stare insieme solo qualche istante. C’erano dei soldati tedeschi di guardia al ponte alla ferrovia, che ci guardavano sospettosi. La sua mano gelata poté tenere stretta la mia solo per un istante».

L’ultimo giorno di guerra

Mesi che valgono una vita. Poi, finalmente, l’ultimo giorno di guerra, “in una bella mattinata di primavera”. Franco sta portando sulle spalle un compagno che si è rotto una gamba. È a pochi metri dalla strada che lambisce il bosco. Vogliono tornare a Bolzano. Incrociano i tedeschi in rotta. Il racconto di quelle ore è sobrio, onesto, lontano anni luce da ogni retorica.«Vidi da lontano i tedeschi, fuggiaschi ma inferociti. Si sentiva il rumore dei loro autocarri. Stavano per sbucare da dietro la curva. Il prato era viscido, scivoloso, tanto ripido e Bruno tanto pesante. Sapevamo tutti e due che non ce l’avremmo mai fatta a raggiungere i cespugli e il bosco in alto e che lì, sul prato, non potevano non vederci. Lo sapevamo troppo bene. Lui mi diceva di scappare, che mi salvassi almeno io, che era inutile morire in due, e Dio sa quanta voglia avevo io di scappare, per non morire così, proprio gli ultimi giorni. E quanto lo odiassi per essersi rotta quella gamba come un cretino. Quanto mi odiavo per non essere stato capace di lasciarlo lì con un cane, a morire da solo. Quando sbucò il muso del primo autocarro, ci lasciammo cadere esausti e rassegnati su quell’erba bagnata, guardando col cuore in tumulto le grigie macchine minacciose da cui di lì a poco sarebbero partiti i lampi che ci avrebbero ucciso. Passò il primo, poi il secondo, poi il terzo, e il quarto… Un’eterna sfilata di cupi occhi in fredde facce inespressive, senza un gesto, senza un sentimento, come se laggiù, due chilometri più sotto, dove si vedeva il fumo nero, avessero esaurita tutta la loro voglia di uccidere. Così un camion dopo l’altro, finché l’ultimo scomparve dietro la prossima curva».

Primo: non odiare

Dopo la guerra Franco Bonatta, fu uno di quegli uomini che la Resistenza l’avevano fatto davvero, ma che decisero due cose. La prima: di non passare all’incasso e sbandierarla come un lasciapassare per fare carriera nella nuova repubblica. La seconda: di non volere vendette verso chi, l’8 settembre, aveva scelto l’altra parte. Ribadì il concetto in un’intervista a Vb33 in occasione del “25 aprile” 1991 (si può vedere su Youtube): «Il giorno dopo l’armistizio, io e i miei amici del liceo abbiamo preso strade diverse. C’è chi è andato con la Decima Mas, chi con i tedeschi, e chi, come me, con i partigiani. Io sapevo che non volevo stare né con i fascisti né con i nazisti, ma se non fosse stato il mio carissimo amico Sandro Bonvicini a indicarmi le formazioni partigiane, non so cosa avrei fatto. Oggi, quando rivedo gli amici del liceo, non c’è nessun odio o recriminazione. Eravamo dei ragazzi in una tormenta più grande di loro». E ancora: «Uccidere è orrendo, anche se di fronte hai dei criminali veri, come erano i nazisti».

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Nell’Italia “nata dalla Resistenza”, Franco Bonatta è un irrequieto che si immerge in mille attività. Negli anni Settanta si trasferisce a Roma e costruisce un residence al Circeo. La sua ormai è una famiglia allargata. Ai figli Marco e Andrea avuti dal primo matrimonio con Marlene, si aggiunge Patrizia, nata dall’unione con Alda Mathion, che, a sua volta, ha altri due figli. Anche Alda ha una storia incredibile che rispecchia il turbine del Novecento: è figlia di un capitano di marina triestino e di una indocinese metà francese metà vietnamita. Nel 1984, Franco torna a Bolzano, riapre la “Marco Polo”. Diventa un punto di riferimento per generazioni di studenti. Sviluppa programmi di gestione aziendale sui primi Commodore 64, progetta un sistema di raccolta differenziata dei rifiuti. Nel 1985 pubblica una libro incredibile. Il titolo è “La verità di Patrizia”. Un romanzo molto autobiografico. Franco si immagina, lui “vecchio partigiano”, in un dialogo con la figlia ventenne, entrata nelle Brigate Rosse. Nella realtà, la figlia Patrizia, nata nel 1971, di anni ne ha appena quattordici. Intuendo per qualche via misteriosa di non avere ancora molto tempo davanti, mette sulla carta esperienze e riflessioni, in modo che un giorno la figlia più piccola possa conoscerlo fino in fondo. Il partigiano “Delfo” esprime la sua delusione per la democrazia incompiuta nata dalla Resistenza. Cita le stragi, le mafie, i vecchi fascisti tornati sotto mentite spoglie. Patrizia, invece, riassume la rabbia dei giovani di quegli anni che imputavano ai padri di non averla realizzata. Una rabbia che Bonatta raccoglie tutti i giorni tra suoi studenti. La scrittura è moderna e anche feroce. Ha parole bellissime per la moglie Alda, “la cara compagna della parte migliore della mia vita”. E per i tre figli. «Ho sempre cercato di non angustiarli con le mie ansie e malinconie».Il 18 dicembre 1994 un infarto se lo porta via. Qualche giorno dopo il figlio Marco gli riserva parole bellissime sull’Alto Adige: «Mio padre è riuscito sempre ad insegnarmi qualcosa d’importante, a dare un senso a questo nostro vivere. Fin da bambino non c’è stato un perché a cui non sia stato capace di dare una vera risposta, il suo modo di vivere la vita, poteva aprire mille dubbi, ma ne dava un senso compiuto e appagava in qualche modo quel senso di giustizia che ha saputo insegnare ai figli e ai tanti ragazzi che hanno avuto la fortuna di averlo come insegnante e amico».Patrizia non c’è giorno che non lo ricordi: «Ho avuto il privilegio di lavorare con lui, insieme a mio fratello Andrea, fino a quando la morte non ce l’ha strappato. La nostalgia è fortissima, ma la sua presenza e il suo esempio lo sono altrettanto». ©RIPRODUZIONE RISERVATA





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