Nel libro “Non so come sia da voi ma da noi è così” (infinito Edizioni) racconto, tra le altre cose, di quell’ippopotamo che non riesce a sopportare i pizzichi delle zanzare sul muso e che, per reagire, si abbandona ad una continua escalation, senza però liberarsi mai definitivamente dalle punture degli insetti, finché esasperato giunge a sbattere la testa contro una roccia, pur di tentare di schiacciare il piccolo insetto che lo punge sulla fronte. Naturalmente si fa molto male e non risolve il problema.
Oggi mi viene da paragonare l’ippopotamo allo Stato d’Israele, che fa di tutto per sterminare le “zanzare” palestinesi, ma più attua lo sterminio più fa male anche a sé stesso. In questo modo, piuttosto che eliminare Hamas, ne moltiplicherà i militanti futuri e non acquisirà maggiore sicurezza. Inoltre i suoi governanti, già incriminati per genocidio dalla Corte internazionale dell’Aja, rischiano di indebolire Israele nei suoi rapporti globali, culturali e scientifici, anche grazie alle campagne di boicottaggio. Ma soprattutto la popolazione israeliana si ritroverà sempre più intrappolata in una pseudo democrazia militarista, in mano ad una banda di guerrafondai, dove i diritti dei cittadini vengono sacrificati sull’altare patrio; e questo porterà ad un aumento delle tensioni sociali interne e a un indebolimento delle relazioni internazionali.
I possibili perché
È lecito domandarsi perché Israele faccia questo. Allo scopo di annettersi nuovi territori, sterminando ed esiliando un intero popolo? Credendo di essere così al riparo da ritorsioni, vendette, nuove guerre? Se la risposta fosse affermativa potrebbe essere indizio di una opaca visione del futuro, oscurata da una mania di onnipotenza, a sua volta giustificata dal mito che invoca la necessità di “difesa preventiva” del popolo ebraico.
Oppure, ipotesi forse troppo crudele per essere del tutto vera, avrebbe pianificato tutto per stadi, fin dal “buco” del 7 ottobre 2023, per arrivare ad annientare l’Iran e, con l’aiuto degli USA, sostituire il regime degli Ayatollah con un governo gradito agli interessi occidentali e della NATO. Ma anche in questo caso lo Stato ebraico non sarebbe immune da conseguenze negative di lunga durata, dovute sia all’odio degli sconfitti, i paesi di professione sciita, sia alle attività delle milizie e dei gruppi armati sunniti succeduti all’ISIS, che non hanno digerito il “Patto d’Abramo” tra Israele e le monarchie arabe sunnite e che considerano gli ebrei usurpatori infedeli.
Resta il fatto che la mancata o incompleta registrazione culturale dell’enorme differenza fra antisionismo e antisemitismo, fa comodo ad Israele, che può continuare a mostrare il proprio popolo come perseguitato. L’antisionismo è l’opposizione al progetto di espansione dello Stato ebraico, concetto storico e politico. Mentre l’antisemitismo è una forma di razzismo, parte delle ideologie suprematiste di tipo autoritario, principalmente patrimonio delle destre neonaziste e neofasciste.
È indubbio che la politica sionista, incarnata più che mai oggi dal leader Netanyahu, abbia per decenni praticato la pulizia etnica e l’apartheid nei confronti dei palestinesi, fino a spingersi verso il tentativo genocida: l’eliminazione fisica o l’esilio forzato di un intero popolo. Un disegno devastante, folle e irrealizzabile.
Catena di violenza
Il mio punto di vista è che questa politica violenta e oppressiva non nuoccia soltanto al popolo palestinese (che al momento ne paga le più terrificanti conseguenze) ma anche al popolo israeliano e, pur in diversa misura, agli ebrei di tutto il mondo.
Se un popolo che è stato vittima di genocidio, come è stato quello ebraico, diventa attraverso il suo Stato e la sua forza militare carnefice di un nuovo genocidio, significa ancora una volta, come diceva Huxley, che dalla Storia non si impara. Significa anche che subire violenza porta spesso la vittima a reiterare il meccanismo violento, facendosi carnefice e coinvolgendo nuove vittime, in una catena senza fine. Accade nelle famiglie, nelle coppie, nei gruppi, sul luogo di lavoro, nei rapporti di vicinato e… fra le nazioni. È quella che la formatrice e mediatrice internazionale Pat Patfoort chiama “la catena della violenza”, per cui chi subisce la violenza e non ha la forza per contrastare direttamente l’avversario (può essere anche il capo ufficio, o l’istituzione, o una potenza più forte) può tenersi dentro il peso del sentirsi in una posizione di minore, prova a liberarsi di questo fardello mettendo altri in posizione minore. La catena della violenza, in questo modo, allarga i conflitti e li moltiplica. Insinuandosi nei nodi irrisolti della Storia, può trasformare una nazione oppressa in devastatrice di un’altra.
Ma la violenza usura profondamente la cultura dei popoli, scarnificandola; incupisce l’immaginario collettivo, colorandolo di paure e angosce; restringe l’orizzonte alle linee di confine, ai muri, ai reticolati, impedendo allo sguardo di spaziare, di arrivare più in fondo, di comprendere.
Così anche la storia ebraica e la sua cultura perderanno molto dalla politica espansionistica e genocida dello Stato Israeliano: gli ebrei non saranno più riconosciuti come perseguitati, proprio nella misura in cui sono oggi persecutori.
Può cambiare qualcosa?
Ma le domande fondamentali, a questo punto, sono due: avrebbero potuto fare diversamente? Può ancora lo Stato ebraico fare diversamente?
Sarebbe potuto andare diversamente se le milizie israeliane non avessero subito iniziato male, nel 1946 con la Nakba (lett. Catastrofe), ovvero la deportazione forzata di centinaia di migliaia di palestinesi, per fare posto ai coloni ebrei; sarebbe potuto andare diversamente se nella società israeliana avessero prevalso le idee libertarie, inizialmente presenti, su quelle oscurantiste e militariste; sarebbe potuto andare diversamente se il popolo israeliano avesse capito che solo investire nella convivenza e nella cooperazione, spartendo in modo equo le risorse del territorio, gli avrebbe garantito un futuro di pace. Sarebbe potuto, ma non è stato. E oggi?
Perché lo Stato ebraico rovesci la sua politica di aggressione colonialista, non basterebbero nuove elezioni vinte dai partiti più aperti e disponibili a trattative di pace. L’apparato militare ed i servizi segreti hanno acquisito sempre più potere, i coloni hanno spesso milizie proprie, per cui anche una coalizione progressista e pacifista, pur auspicabile, non avrebbe vita facile. Occorrerebbe probabilmente una vera rivoluzione dal basso, che porti ad una rifondazione dello Stato di Israele su principi e su prassi capovolte, rispetto alle attuali, quindi su basi di eguaglianza di diritti e di risorse per tutte le etnie e le fedi. Solo a partire da questi presupposti di giustizia e rispetto reciproco, si potrà arrivare ad una vera pace condivisa.
Si potrebbe obiettare che lo stesso discorso dovrebbe riguardare anche la parte palestinese. Certo, la pace si fa in due, non da soli. Tuttavia l’enorme sproporzione fra le due parti, in termini di potere e di ricchezza, fa si che il pallino del gioco sia costantemente dalla parte israeliana e che anche i mezzi e le forme della resistenza araba siano in buona misura indotte dalle mosse dei più potenti. In una situazione di persistente ed esacerbante violenza, come quella attuale, è molto improbabile che il popolo palestinese possa dare maggior impulso ad una lotta nonviolenta, basata sulla non collaborazione e la disobbedienza civile: chi si sente ogni giorno messo al muro, considerato alla stregua di un animale non umano, è portato a difendersi con le unghie e con i denti, prima ancora di ragionare sull’efficacia del proprio comportamento. I palestinesi sono brutalmente oppressi, discriminati, annichiliti: sarebbe eccessivo pretendere da loro una risposta più virtuosa e dialogante. Chi non ha respiro, come può dialogare?
Solo il popolo israeliano e gli ebrei della diaspora avrebbero il potere di disubbidire, di ripudiare questa politica di sterminio e, con una forte pressione popolare e mediatica, riuscire ad imporre il cessate il fuoco e la caduta del governo bellicista. Sarebbe un primo passo importante, per poter vedere in lontananza quel piccolo spiraglio di pace che ancora esiste.
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