Sfilata primavera/estate 2025 di Tod’s.
Scioperi, dipendenti in cassa integrazione, aziende fallite, chiusure di fabbriche, cali dell’export. Sono loro i protagonisti assoluti dell’attuale Made in Italy, non le favole raccontate sulla situazione florida del settore o i ricordi di una moda che ormai non esiste più, quella che negli anni Ottanta e Novanta vide il suo periodo di massimo splendore in termini di crescita del “fatto a mano in Italia”.
Una artigiana di Berluti.
Sono ricordi, appunto. Ricordi che il 2024 ha spazzato via portando all’attenzioni di tutti la necessità di regolamentare il settore, a partire dalla politica nazionale. Infatti, gli scioperi tenutisi a ottobre nel distretto di Prato, centro importantissimo della Toscana per il Made in Italy, hanno lanciato l’allarme definitivo sui diritti dei lavoratori nella filiera della moda.
Le proteste sono andate avanti da giorni, culminando nell’aggressione a sprangate di uno studente e di un sindacalista che partecipavano a un presidio, minacciati di morte. Non è la prima aggressione del genere come non è la prima rivolta dei lavoratori nel corso del tempo. Il motivo di tutto ciò sono turni di 12 ore al giorno, da lunedì a domenica, e contratti part time non rispettati o addirittura in nero, senza tutele.
Realizzazione a mano di scarpe.
La crisi del Made in Italy
Eppure, è una condizione nota da anni quella dei dipendenti delle aziende gestite da imprenditori cinesi che sfruttano la manodopera e lavorano per il lusso, senza che lo Stato intervenga in alcun modo perché, anzi, non violano la legge come si può credere.
Infatti, la comunità cinese che si è insediata dagli anni Novanta del secolo scorso nel distretto pratese, da sempre abitato da aziende a conduzione familiare, non è integrata con la comunità e, pare, che quasi nessuno degli imprenditori che la rappresenta tutt’oggi sia iscritto all’Unione industriale di Prato, sindacato che “promuove e tutela gli interessi d’insieme e quelli delle singole aziende”.
La chiusura delle aziende italiane
A rincarare la dose, è arrivata nel 2024 un’inchiesta di Andrea Guolo e Matteo Mina per MF Fashion, che ha documentato la chiusura di centinaia di aziende e produttori di accessori tra Toscana, Marche e Campania. Mentre a Firenze e Pisa le ore di cassa integrazione per i settori di pelli, cuoio e calzature si aggirano sui 3 milioni, solo nel primo semestre dell’anno.
Il ruolo della Germania nella crisi
Le vendite magre dei brand del lusso, che sono i primi ad affidare la propria produzione alle imprese italiane, hanno condotto in parte a questa situazione. C’è di mezzo anche la stagnazione della Germania il cui PIL ha registrato la crescita più bassa in Europa, dopo la Finlandia.
Laboratorio di Massaro house, che realizza scarpe per Chanel.
Questo perché la Germania è il primo mercato delle esportazioni italiane con ben 72 miliardi di euro nel 2024. Adesso però l’export è sceso del 5,4% e ciò equivale ad una perdita di 12 milioni al giorno. E, tra i settori più colpiti, c’è pure la moda italiana.
Dunque, è reale la crisi del Made in Italy. Più reale che mai, ed è un problema per molti marchi lussuosi del Bel Paese, e non solo, che hanno fondato il proprio business così come la loro comunicazione sul “fatto a mano in Italia”.
Crisi del Made in Italy: dati e considerazioni
Intanto, ogni anno mancano più di 7 mila tecnici nel sistema moda, e ciò equivale ad un costo di 15 miliardi di dollari per l’Italia, con relative difficoltà nella produzione di abiti e accessori, che esistono in funzione degli artigiani.
Una manifattura di cappelli.
Al tracollo della produzione, si aggiunge la crisi del fashion retail. Addirittura, riporta Federazione Moda Italia-Confcommercio, negli ultimi quattro anni hanno chiuso 16.863 negozi di moda, lasciando a casa 13.164 addetti, peggiorando così una situazione già difficile.
Ma per comprendere la portata della crisi che sta investendo l’intero sistema moda italiano, e non unicamente il lusso che è la punta dell’iceberg, bisogna aggiungere un ulteriore tassello al puzzle: secondo Cna Federmoda, circa 10 mila piccole imprese e su mila addetti sono a rischio, evidenziando le criticita che la filiera moda sta affrontando.
Un artigiano della pelle.
I motivi della crisi del Made in Italy
Le motivazioni sono tante e di vario genere, come gli aspetti di una crisi covata nel tempo: dalle relazioni con i clienti del lusso internazionale all’aumento dei costi di lavoro, energia e materie prime. Ma anche, nel caso dei negozi di moda, l’incombenza dello shopping online e del fast fashion, che ha trovato la sua fortuna in marchi sempre più distanti dalla classe media e nella propensione all’acquisto “facile”.
Di questo lento peggioramento non sembra interessare a molti, politici inclusi. Ma l’attuale condizione del sistema dimostra sia che la moda italiana, al di là del mito del Made in Italy, può soffrire di certe situazioni sia che il collasso, dalla produzione al retail, non è più una prospettiva ma un dato di fatto.
Un laboratorio di lavorazione della pelle.
Non si vive di motti nostalgici e patriottici, o di indirizzi di liceo che ricordano i fasti di un Paese che implode. Bisognerebbe, piuttosto, agire e regolamentare il settore, stanziando più fondi per incentivare la crescita e rivedere la tassazione di piccole e medie imprese locali. Ma le soluzioni, quelle vere e utili, spettano a chi di dovere, se solo si avesse a cuore la moda Made in Italy e le migliaia di dipendenti che la animano.
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