Agli chef piace ancora la scarpetta

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Il galateo dice che non si fa, ma è difficile resistere al boccone di pane che raccoglie le ultime vestigia di un sugo o una salsa o un semplice fondo ricco di umami. Fare la scarpetta può apparire una debolezza, una concessione alla gola. Ma, per dirla con parole note a tutti, si può resistere a tutto tranne che alle tentazioni. E lo sbaffo di ragù sul fondo del piatto è una delle più forti per chi ama mangiare. Lo ha certificato anche una ricerca condotta da YouGov per Barilla. Secondo il report il 68 per cento degli italiani ama gustare ogni boccone e la scarpetta è il secondo gesto più diffuso quando si cena in ambienti informali per il 57 per cento degli intervistati. Il 60 per cento si autocensura al ristorante fine dining, pur sentendo il rimpianto del non aver “scarpettato” il fondo del piatto al termine del pranzo.

C’è chi ancora si scandalizza se viene fatta al ristorante – sia esso gourmet o una semplice trattoria. Ne è la prova l’ultimo spot per Barilla Al Bronzo in cui il cliente che fa la scarpetta fa notizia e spinge lo chef Davide Oldani a vendicare l’affronto con uno spaghetto che raccoglie tutto, ma proprio tutto, il condimento nel piatto. Tuttavia, tantissimi chef hanno eletto la scarpetta a vessillo di piacere, inserendone spiccati riferimenti nei loro menu. Un esempio? Dopo lo “scandalo” della pasta al burro a 26 euro, Portrait Milano ha scelto di puntare su un piatto di ragù da raccogliere col pane. A ispirare l’idea lo chef Antonio Minichiello di Caffè dell’Oro di Portrait Firenze con il suo piatto Mezze maniche con ragù della domenica, pecorino e “la sua scarpetta”. Così abbiamo chiesto agli chef del “team scarpetta” di raccontarci questo gesto che spesso si trasforma in ricetta e piacere per chi ha la fortuna di sedersi alla loro tavola.

«Fare la scarpetta, una volta, era il complimento più bello che potevi fare a chi aveva cucinato» spiega lo chef Cesare Battisti, «significava che il piatto era talmente buono da non volerne lasciare neanche una goccia. Era rispetto per il cibo, per chi l’ha preparato, per la terra che ce l’ha dato. Ora mi chiedo: perché è diventata una cosa negativa? Chi ha deciso che non si fa? Per me, resterà sempre una buona abitudine. Anzi, quando qualcuno da noi la fa, io penso solo una cosa: “Ecco, questo ha capito tutto della vita”».

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Nella carta della sua ultima apertura, Silvano, Battisti ha inserito un piatto dedicato alla scarpetta: pane e ragù, semplicemente, «perché pensiamo che la scarpetta non sia solo un’azione, ma un vero e proprio rito. Perché la semplicità del gesto di scarpettare riflette appieno la natura popolare della nostra cucina, quella italiana, che è fatta di cose semplici ma incredibili».

Per lo chef Gianluca Gorini c’è un certo senso di appagamento quando, dalla sala, vede rientrare piatti che sono stati terminati con l’inconfondibile gesto della scarpetta. «Oltre a indicare che il piatto è stato particolarmente apprezzato, dimostra soprattutto che l’ospite è totalmente a suo agio e che si sta lasciando conquistare dal piacere della tavola. Un gesto così “semplice” ma che in realtà nasconde un senso molto profondo riconducibile all’essenza del cibo».

Insieme al suo maestro, Paolo Lopriore, Gorini realizzò un piatto che omaggiava la scarpetta. Ne “La Zolla di Certosa” c’era un pezzo di pane che veniva imbevuto in un estratto di foglie di cavolo nero e ultimato con estratto di salvia, polvere di cipolla e olio extra vergine di oliva. «Una visione futuristica di un gesto atavico». In questo momento nel ristorante di Gorini viene servito un piatto a base di lepre cotta al vino rosso, che viene poi ricoperta con un’emulsione di patate affumicate e olio di oliva. «Non terminare il piatto con la scarpetta sarebbe un peccato. Ed in effetti succede quasi sempre!».

«Amo molto la scarpetta perché trovo che questo gesto racchiuda l’idea che ho della cucina, che è quella del sapore» sottolinea la chef Iside De Cesare de La Parolina. «Fare la scarpetta simboleggia il cercare di trattenere il sapore fino all’ultimo. Non è solo gustare: è memorizzare un gusto. Più volte ho pensato a questo gesto e, pensando alla scarpetta, sono nati i nostri gelati salati mantecati con il pane».

«Nel repertorio di Contraste – racconta lo chef patron Matias Perdomo – c’è un piatto che è stato concepito appositamente per invitare il cliente alla scarpetta finale: la nostra “Tartare di Coniglio Arrosto”. L’essenza del piatto sta negli intingoli della cottura della carne, che hanno lo scopo di ricordare il tradizionale coniglio al forno (gocce di cappero, estratto di oliva nera, olio al peperone, essenza di rosmarino e fondo di coniglio arrosto), e vengono concentrati in un brodo versato nel piatto direttamente al tavolo. Per la tartare utilizziamo un filetto di coniglio cotto con la tecnica giapponese dello shabu shabu, che lascia la carne succosa, tiepida, ma di una consistenza quasi cruda. Accompagniamo la portata con una fetta di pane di lievito madre».

«La scarpetta la suggeriamo sempre perché pensiamo che sia un momento in cui l’ospite va a completare il nostro piatto» fa eco lo chef Andrea Berton, patron dell’omonimo ristorante. La suggeriamo in un nostro piatto estivo a base di pomodoro San Marzano con pappa al pomodoro e crema di basilico, per cui offriamo il nostro pane di farina di riso rosso».

Molto spesso gli chef si portano dietro un ricordo familiare legato alla scarpetta. È ciò che accompagna Vincenzo Dinatale, executive chef del ristorante Luce, che accosta questo gesto al ragù della domenica, che in Puglia è fatto con la carne di cavallo. «Fare la scarpetta è un gesto d’amore per il cibo e la golosità. Durante i miei anni alla Maison du Gourmet di Parma ho messo insieme i tortelli tipici dell’Emilia con la braciola come ripieno, il tutto condito con crema di parmigiano e di friggitelli. Era anche un modo per omaggiare una ricetta tipica di quel territorio, La vécia col pist, uno stracotto di cavallo che fa eco al nostro modo di preparare il ragù. Oggi ho portato questo amore per la scarpetta al ragù nei nostri cannelloni di pasta fresca ripieni di braciola».

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