Qatargate, il fascicolo di cui tutti i giudici si vogliono liberare

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Nessuno vuole più mettere mano al fascicolo Qatargate. E uno dopo l’altro, i giudici coinvolti nell’inchiesta sul presunto scandalo di corruzione all’interno dell’Europarlamento – inchiesta ferma al palo sin dal giorno degli arresti – stanno lasciando la poltrona, senza essere riusciti a cavare un ragno dal buco. A mollare la presa, questa volta, è Aurélie Déjaiffe, che aveva preso in mano il fascicolo dopo l’addio di Michael Claise, il giudice che ha firmato gli arresti nel dicembre 2022.

Claise aveva lasciato l’incarico dopo la scoperta, da parte delle difese, dei rapporti tra il magistrato e Maria Arena, eurodeputata il cui nome era spuntato più volte durante le indagini, ma tenuto fuori dal fascicolo fino alle dimissioni di Claise. Il magistrato, secondo cui la democrazia europea sarebbe stata «fottuta» da una corruzione finora tutta da dimostrare, si è poi candidato in politica, aspirando alla poltrona di ministro della Giustizia in Belgio ma incassando una sonora sconfitta, con un partito – DéFi – che ha espresso un solo parlamentare.

Ma dopo di lui a lasciare era stato anche il procuratore Raphael Malagnini, che è passato all’auditorato del lavoro di Liegi. Rimaneva solo Déjaiffe, che aveva già avuto in mano il fascicolo prima di Claise e che dalla fine di gennaio entrerà a far parte della Corte d’appello del tribunale di Bruxelles. Ma non solo: anche Déjaiffe, come Claise, ha tentato la carriera politica, candidandosi alle elezioni parlamentari del 2023, ma senza riuscire a ottenere il seggio.

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L’inchiesta, dunque, scotta. Anche perché adesso è al vaglio del Comitato R, una sorta di Copasir in salsa belga, che dovrà accertare il ruolo dei servizi segreti nella vicenda. Servizi che, stando a quanto appurato dalle difese, avrebbero di fatto svolto la maggior parte del lavoro, intercettando parlamentari europei senza aver bisogno di alcuna autorizzazione e violando ogni forma di guarentigia. Nonostante ciò, nei rapporti degli 007 non erano emersi indizi a carico del personaggio eccellente dell’inchiesta, ovvero Eva Kaili, all’epoca vicepresidente del Parlamento europeo, arrestata per via di alcune borse piene di soldi portate via dal padre da casa sua. Ma quei soldi, ha spiegato il marito Francesco Giorgi (anche nel suo caso gli 007 non avevano trovato nulla), ex assistente parlamentare di Piero Antonio Panzeri, presunto vertice dell’associazione a delinquere, appartenevano proprio a Panzeri, diventato in fretta e furia, su pressione degli inquirenti, pentito.

Una scelta fatta in cambio della scarcerazione della moglie e della figlia, di fatto usate come merce di scambio, avevano denunciato i suoi difensori. L’inchiesta, inizialmente, riguardava dunque una «rete composta da un lobbista e da dei deputati» all’interno delle istituzioni europee, rete che avrebbe lavorato a favore di diversi paesi, tra cui il Qatar. La corruzione è stata ipotizzata soltanto nel momento in cui il fascicolo è passato alla procura federale, che avrebbe dovuto trasferire tutto alla procura europea, rimasta invece a bocca asciutta. Cosa che, secondo quanto scriveva La Libre qualche tempo fa, avrebbe fatto infuriare gli stessi magistrati europei, una squadra nata proprio per indagare su casi come il Qatargate. Il fascicolo era, però, troppo succoso, forse, per lasciarlo ad altri. Ma presto, lo stesso si è trasformato in una vera e propria patata bollente.

Che non si tratti di corruzione sembra chiaro da tre elementi. In primis, i deputati hanno diritto a svolgere attività retribuite parallelamente al mandato parlamentare purché sia dichiarata. Cosa che Panzeri non ha fatto, da qui l’evasione fiscale. A ciò si aggiunge il fatto che non esiste alcun voto che risulti sbilanciato a favore di Marocco e Qatar e frutto di un’azione corruttiva. Infine, il Belgio ha revocato il mandato d’arresto per coloro che sono considerati i principali “corruttori”: la magistratura ha infatti scelto di non perseguire il ministro del lavoro del Qatar Ali bin Samikh Al Marri, colui che avrebbe pagato gli eurodeputati per ottenere voti favorevoli alle politiche qatariote in Parlamento.

Lo stesso è accaduto con Abderrahim Atmoun, attualmente ambasciatore del Marocco in Polonia, e Mohamed Belharache, funzionario del servizio segreto estero marocchino (la Dged), sospettati di aver pagato gli eurodeputati Panzeri e l’ex eurodeputato Andrea Cozzolino e il loro ex assistente Giorgi, affinché lavorassero segretamente per conto del Marocco all’interno del Parlamento europeo. Gli inquirenti belgi, però, non li hanno mai ascoltati fino a dicembre 2023 e il loro interrogatorio è stato possibile solo a condizione che la loro testimonianza fosse raccolta da un magistrato marocchino.

Così la procura ha inviato a Rabat agenti di polizia e magistrati, col vincolo, però, di rimanere in silenzio. Insomma, un crimine senza autori. E forse a mancare è proprio il crimine. Anche perché, come ha affermato il principale investigatore dell’inchiesta, le parole di Panzeri non sarebbero credibili: «Sappiamo che mente». Tutta fuffa. Insomma, il Qatargate, ancora una volta, è una nave che affonda. E ora pure senza comandante.



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