Paolo Piras, il romanzo di Gigi Riva

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Ci sono calciatori che con i loro gol hanno fatto la storia di una squadra e altri che hanno fatto la storia di una regione. I primi con le loro reti decisive hanno consentito al club la vittoria di un trofeo prestigioso, i secondi con i loro gol hanno riscattato l’orgoglio di una popolazione di una ristretta area geografica.
È stato il caso di Maradona a Napoli, quando guidò la squadra partenopea alla conquista dello scudetto, il «pibe de oro» fu adorato fino alla beatificazione.

In Sardegna, tra la fine degli anni ‘60 e la metà dei ‘70, è stato il caso di Gigi Riva del quale il 22 gennaio cade il primo anniversario della morte. La Sardegna non era la sua terra natìa, ma fin da subito Riva diventa tutt’uno con l’Isola, un legame che è durato tutta la vita. Quella natìa e quella di adozione avevano in comune la povertà. Gigi Riva era nato a Leggiuno, sulla sponda povera del Lago Maggiore, di fronte a Luino, città turistica della sponda ricca a qualche chilometro dalle vette svizzere, che dette i natali al poeta interista Vittorio Sereni.

Il padre di Gigi Riva lavorava in fabbrica, un giorno una scheggia partita dalla pressa gli perforò i polmoni e non ci fu niente da fare. I calci al pallone che all’oratorio Gigi tirava fino all’imbrunire, divennero carichi di rabbia contro un mondo che gli aveva portato via il padre, costringendo la madre a fare la donna di servizio. Si ammalò anche lei e poco dopo morì. Inevitabile per Gigi Riva il collegio di Viggiù, dove trovavano assistenza bambini bisognosi, orfanelli e ragazzi da «correggere», tenuti a bada da suore manesche. Di quel luogo tetro Riva si portò dentro un ricordo indelebile

Conto e carta

difficile da pignorare

 

« Le camerate fredde, il mangiare da schifo, il cantare ai funerali anche tre volte al giorno, il dover dire grazie signore, grazie signora, a chi portava il pane, i vestiti usati, e pregare per i benefattori, e dover stare sempre zitti, obbedienti, ordinati, come dei bambini vecchi».

Scontroso e ribelle, fuggì più volte da Viggiù, lo mandarono in un collegio di Varese, le sorelle Lucia e Fausta non potevano occuparsi di lui. Sublimò quel carattere difficile con i gol, non prima che qualcuno gli avesse trovato un lavoro in un’officina meccanica. Poi l’esordio con il Laveno Mombello in prima categoria. Il presidente della squadra è anche il proprietario di una fabbrica, a 16 anni Gigi Riva passa otto ore al montaggio delle pulsantiere per ascensori. Sul campo dell’oratorio, per non rovinare le scarpe che dovevano durare tutto l’anno, aveva imparato a colpire la palla di collo piede. Quella strana modalità, nelle domeniche del pallone si trasformava in un tiro imprendibile indirizzato verso l’angolo alto della porta.

Il ragazzo introverso si riappacificava con il mondo quando, sul prato verde di un campo di calcio, il pallone di cuoio rotolava tra i piedi per colpirlo con il suo tiro mancino: per i portieri non c’era nulla da fare. Il passaggio alle categorie superiori sembra inevitabile e un vero contratto arriva dal Legnano che gioca in serie C. A segnalarlo è il suo caporeparto, uno che s’intende di calcio e che nota i piedi prodigiosi del ragazzo. Alla quinta di campionato Legnano-Ivrea, l’allenatore fa esordire Riva, la squadra vince 3-0 e il terzo gol è suo. Quell’anno allo stadio presta servizio il carabiniere sardo Giuseppe Vitali, uno che ha giocato a calcio, lo segnala al suo amico Andrea Arrica, vicepresidente del Cagliari. A fine stagione un aereo porta Gigi Riva in Sardegna, da quella terra e dalle glorie calcistiche del Cagliari che seguirono, poi della nazionale italiana e dei mondiali in Messico nel ‘70, non si allontanerà mai più, fino ad assumere un’identità sarda e a contribuire a consolidarla negli abitanti dell’Isola.

Paolo Piras ha scritto Vertical il romanzo di Gigi Riva (66thand2nd) non con la rozza scrittura delle tante biografie di calciatori che hanno invaso gli scaffali delle librerie, piena di grondante retorica, ma con il merito di tracciare un quadro sociale e politico degli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso, anche se forse avrebbe dovuto osare di più.

Descrive senza fronzoli la vita calcistica di Riva e di altri calciatori, come Albertosi, Domenghini, Boninsegna, Martiradonna, Nené, Cera, che fecero grande il Cagliari dell’unico scudetto conquistato nel 1970. Sedeva in panchina il filosofo Manlio Scopigno, contrario ai ritiri prepartita, cultore del whisky e delle sigarette, per questo amato dai calciatori e dallo scrittore Luciano Bianciardi.

L’autore non trascura la presenza sull’Isola del petroliere Angelo Moratti con le sue raffinerie, che in qualche occasione intervenne con generosi assegni per evitare che il Cagliari cedesse Riva per fare cassa. Non trascura neppure il tentativo di Gianni Agnelli, che in nome dei tanti miliardi di lire messi sul piatto, oltre ad alcuni calciatori, tra i quali i giovani Bettega e Gentile, vuole Riva alla Juve per rinforzare la squadra e tenersi buoni i tanti sardi che lavorano alla Fiat.

Da «Rombo di Tuono», come lo definì Gianni Brera, l’Avvocato ebbe un netto rifiuto. Fu allora che l’identità dei sardi e quella di Gigi Riva si saldarono definitivamente e il calciatore divenne «Vertical», come lo definì Gianni Mura, un sardo che sapeva scrivere di calcio.

Gigi Riva l’anno scorso fu ricoverato per l’occlusione delle arterie a seguito delle migliaia di sigarette fumate. Ai medici che gli prospettarono l’urgenza dell’intervento chirurgico, Riva oppose un netto diniego, riservandosi di ripensarci. Il suo cuore non gli lasciò scampo.

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Riva amava le canzoni di De Andrè, il cantautore genovese di casa in Sardegna che in quegli anni apprezzava le sue prodezze calcistiche. I due si ritrovarono una sera sul retro di una pompa di benzina che il calciatore aveva comprato insieme a un’officina come investimento. A tener loro compagnia una bottiglia di whisky e tante sigarette fumate. Parlarono per un’intera notte di Luigi Tenco. Altri tempi rispetto al divismo di oggi.



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