Franco Piperno, la rivoluzione alla luce del sole

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Franco Piperno, scomparso ieri a 83 anni nella Calabria in cui era nato, non si è portato nella tomba alcun segreto, come qualche incosciente ha pure scritto. La sua idea di rivoluzione non aveva nulla di misterioso, segreto, cospiratorio. Era esplicita, ostentata, gridata alla luce del sole come quando, in tempi nei quali i rapporti di forza rendevano normale dire quel che oggi nessuno oserebbe sussurrare, parlò apertamente di insurrezione necessaria e imminente. Non in un convegno carbonaro ma nel congresso dell’organizzazione di cui era fondatore e principale dirigente, Potere operaio.

NEGLI ANNI  tra il 1968 e il 1973, la fase più vicina a una rivoluzione che ci mai stata in questo Paese, Piperno è stato un dirigente politico tanto lucido quanto visionario, capace dunque di sovvertire l’idea stessa di sovversione per come era intesa allora. Rifuggiva dall’attesa, l’orizzonte sempre distante e mai a portata di mano che il Movimento Operaio continuava a inseguire. Molti anni dopo, ricordando quel tempo, avrebbe esaltato «l’emozione che si prova nel cessare l’attesa, quando il futuro diventa irrilevante e il presente, la totalità del reale, si dispiega». In un Movimento in cui troppi guardavano altrove perché non sapevano capire quel che avevano sotto gli occhi in casa, derideva «la concezione subalterna e un po’ autoritaria secondo la quale erano i Paesi del Terzo Mondo i luoghi natrurali del processo rivoluzionario». Era un uomo del «qui e ora», forse il più vicino a quel sentimento collettivo riassunto nello slogan che più di ogni altro racconta ancora oggi quel momento: «Cosa vogliamo? Tutto e subito».
Nato a Catanzaro, studente a Pisa e Roma, iscritto alla Fgci e cacciato nel 1967, fisico brillante, rivoluzionario della scuola di Panzieri e Tronti, dei Quaderni Rossi e di Classe operaia, Piperno è stato uno dei principali leader del lunghissimo ’68 italiano, dotato di una eccezionale capacità oratoria, venata da ironie taglienti e sarcasmi a volte feroci. Ma di ’68 ce ne sono stati tanti e molti guardavano all’indietro. Quello di Piperno sapeva vedere il presente, la possibilità di una liberazione dalle catene del lavoro salariato praticata subito. Era un intellettuale raffinato che però consegnava la sua riflessione all’azione e all’organizzazione invece che alla parola scritta.

COME MOLTI LEADER capaci di sognare in grande, quello di Potere operaio era realista, consapevole del peso dei rapporti di forza. La violenza, mai rifiutata e anzi spesso esaltata, non era però mai intesa come azione terrorista, svincolata dalla violenza di massa: l’unica che si possa praticare «come riappropriazione della sovranità e dell’autonomia a fronte del potere costituito». La violenza poteva e doveva essere usata come strumento di liberazione immediata, nelle fabbriche e nei quartieri popolari dei primi anni ’70. L’organizzazione che dirigeva aveva il suo apparato clandestino, i rapporti con i Gap di Feltrinelli erano molto stretti, ma dall’impostazione brigatista Franco Piperno era sideralmente distante e lo rimase sempre.
C’è una tragedia che inevitabilmente accompagna il ricordo di Piperno e di Po: il rogo di Primavalle dell’aprile 1973, nel quale persero la vita due figli del segretario della locale sezione del Msi, Virgilio e Stefano Mattei, 22 e 10 anni. Le responsabilità dell’organizzazione erano inesistenti. Il coinvolgimento di Piperno, convinto «dal 1964» che «tra i guasti più irreparabili inferti all’Italia dal fascismo ci fosse l’antifascismo», lo era anche di più.

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NEL 1978, con Lanfranco Pace, Piperno, amico di Giacomo Mancini, si rese protagonista, su spinta del Psi e del suo leader Bettino Craxi ma con piena e personale convinzione del solo tentativo reale di evitare l’uccisione di Aldo Moro. Forse dietro quell’azzardo generoso e fallimentare c’erano anche motivi umanitari ma di certo c’era soprattutto la percezione lucida del disastro che quell’esito avrebbe comportato per quanto ancora resisteva del Movimento di classe. Le conseguenze si abbatterono anche su di lui: colpito nel 1979 da un mandato di cattura nel quadro della montatura 7 aprile, esule in Francia, poi in Canada e di nuovo in Francia per oltre dieci anni.
Piperno è stato espressione eminente di una generazione di rivoluzionari sconfitta. Ma se ne è andato senza aver mai considerato la partita persa una volta per tutte: «La guerra sociale è solamente sopita, non si è per niente conclusa: è destinata a riaccendersi in forme estreme, come e ancor più che prima»



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