SPILLO LAVORO/ Se la giurisprudenza mette a rischio 160.000 posti a tempo indeterminato

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Il lavoro è cambiato e sta continuamente cambiando. Il mutamento più profondo è descritto dal passaggio da una vita caratterizzata da un lavoro a una vita caratterizzata da più lavori. È effetto di una domanda di flessibilità che viene dal sistema produttivo e dalla velocità di cambiamenti dei sistemi produttivi e tecnologici e delle professionalità richieste. Insieme a questi cambiamenti strutturali ve ne sono anche di comportamento dell’offerta di lavoro.



Gli effetti demografici con classi giovanili che arrivano al lavoro e sono molto meno numerose delle classi di età in uscita determinano un mismatching quantitativo e anche qualitativo rispetto alle esigenze del sistema produttivo. La fase pandemica ha poi indotto a cambiamenti nell’organizzazione del lavoro sia dal lato delle imprese che come richiesta di conciliazione del tempo di lavoro con quelli del resto della vita da parte dei lavoratori. La domanda di un’organizzazione del lavoro, sempre per le attività che lo consentono, che preveda una quota di smart working è ormai generalizzata.

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Come conseguenza degli aspetti demografici e dei comportamenti indotti dalla fase di lockdown si è parlato di un fenomeno di grandi dimissioni dal lavoro. La realtà ci indica che a fronte di competenze scarse una quota di lavoratori ha cambiato attività o azienda. La mobilità fra una occupazione e un’altra è aumentata e può diventare una nuova caratteristica del mercato del lavoro dei prossimi anni. I dati ci dicono che ormai la media di durata dei nuovi contratti di lavoro a tempo indeterminato ruota intorno ai tre anni. Con una realtà come quella che si sta delineando dovrebbe essere evidente che non è la forma contrattuale che determina la stabilità lavorativa, ma che il sistema di tutele e di diritti va ripensato e ridisegnato tenendo conto di mutamenti avvenuti. Questo a meno che si pensi che attraverso la rigidità di norme contrattuali sia possibile ridisegnare il sistema economico e produttivo. In questo caso poi assegneremmo ai soli vincoli dei contratti di lavoro il compito di regolamentare i “desideri” delle imprese e quelli dei lavoratori.



Come in tante fasi di passaggio vediamo apparire qualcosa di nuovo, ma il vecchio sistema si propone come forma di freno di sicurezza creando situazioni “mostruose”. È questa la situazione che si sta creando per una figura di lavoratore che assomma su di sé un po’ tutte le caratteristiche delle novità: parliamo dei lavoratori in somministrazione con contratto a tempo indeterminato. Cominciamo col dire che nonostante le diffidenze ideologiche si tratta oggi di 160mila lavoratori. Quindi, le agenzie per il lavoro hanno creato un lavoro contrattualmente stabile per una che sarebbe fra le più grandi aziende del Paese per occupazione.

Ma il lavoro somministrato a tempo indeterminato, o staff leasing, viene valutato anche per la durata del contratto dí somministrazione. Qui si apre una contraddizione dove la giurisprudenza ha sollevato un problema ponendo la necessità che vi sia un limite se la somministrazione avviene per un periodo superiore ai 24 o 36 mesi nella stessa impresa. Quindi (chi scrive non è un esperto di diritto e cerca quindi la sostanza del problema), un lavoratore a tempo indeterminato è obbligatoriamente messo a tempo determinato per il settore economico dove opera l’impresa che lo ha assunto. È evidente che la situazione è viziata da un pregiudizio che permane quando si parla del lavoro somministrato visto come non equiparato a quello considerato standard per qualità e tutele.

Eppure i dati che vengono da ormai più di trent’anni di lavoro interinale dicono che la probabilità di passaggio a un’attività diretta nelle imprese utilizzatrici è maggiore per i lavoratori in somministrazione che per i lavoratori con contratto a tempo determinato.

La seconda osservazione è in questo periodo ancora più rilevante. I lavoratori in somministrazione sono inquadrati con il contratto del settore in cui sono impiegati e hanno salario e inquadramento identico ai colleghi di lavoro. È oggi annotazione rilevante perché in molti settori l’alternativa allo staff leasing è il ricorso a forniture di manodopera attraverso cooperative di “servizi” motivate solo dal taglio dei costi ottenuto attraverso salari sotto i minimi contrattuali.

Le osservazioni della realtà portano a rilevare che cercando di penalizzare forme nuove di organizzazione del lavoro in realtà si favorisce un settore di lavoro grigio che porta molta responsabilità nei ritardi della crescita della produttività del nostro sistema economico, oltre che essere colpevole per le forme di supersfruttamento del lavoro.

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Oggi per l’incertezza normativa vi sono quindi 160mila lavoratori a rischio stabilità perché le imprese utilizzatrici, per non correre rischi di fronte alle incertezze, preferiscono ricorrere a forme di lavoro meno stabile.

Il dover di nuovo affrontare il tema come diritto a organizzare il lavoro in modo nuovo porta con sé anche un altro grave tema. Di fronte a una dipendenza da un’impresa e al lavoro presso un’altra, spesso con possibili cambi di settore, vi è la necessità di sviluppare piattaforme contrattuali che rendano equivalenti, oltre al trattamento economico, anche le tutele di fronte ai momenti di fragilità sul lavoro a partire dalla tutela delle lavoratrici per i periodi di maternità.

Chiarire velocemente che lo staff leasing è una forma di lavoro che permette di organizzare al meglio fasi diverse della produzione produce quindi una certezza per 160mila lavoratori e restituisce alle parti sociali la responsabilità di contrattare nuove forme di tutela per un lavoro flessibile, ma con tutele e diritti pari e superiori a forme contrattuali tradizionali.

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