Analisi e storia della politica breve di Don Peppino Chiaravalloti

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La morte di Giuseppe Chiaravalloti, per molti don Peppino, induce a riflettere, visto il ruolo chiave da lui svolto nel primo lustro di questo quarto di secolo in Calabria, sul ruolo che ha svolto e sulla sua presidenza alla guida della nostra Regione.
Un magistrato di alto lignaggio, sconosciuto ai più, ma ben inserito nei circoli che contano nel capoluogo di Regione, per origine e appartenenza venne identificato dal marketing berlusconiano come uomo adatto a rappresentare il Polo di centrodestra che già altre due volte aveva governato la Calabria con i due presidenti Giuseppe Nisticò e Giovambattista Caligiuri, cui fece seguito per una breve stagione l’ulivista Gigi Meduri. Chi scelse Chiaravalloti non aveva tenuto in considerazione il celebre aforisma di Rino Formica sulla politica che è “merda e sangue”. E in Calabria purtroppo il sangue non è metafora.
La scelta di Chiaravalloti fu condizionata dal fatto che nel 2000 per la prima volta il presidente veniva eletto direttamente, quindi doveva essere popolare e lontano dal teatrino della politica. Alla scelta berlusconiana il centrosinistra rispose con le sue pletoriche riunioni dove i veti dominavano e al fotofinish il vecchio Riccardo Misasi da Roma riuscì ad imporre il celebre mezzobusto Rai, Nuccio Fava, che frequentava la Calabria d’estate e per qualche premio letterario.
Il magistrato vinse di un punto percentuale, circa 13.000 voti in più del giornalista che aveva fatto una bella rimonta. L’elettorato calabrese era stato attirato da due personalità differenti ma unificate dal fatto di essere estranei alle gang della politica locale. Lo schieramento di centrodestra era stato in grado di allargare la coalizione inglobando la Fiamma e i socialisti di destra. Furono elezioni maggioritarie vissute con partecipazione. Contarono le appartenenze meridiane, le solite clientele bipartisan, e l’appeal dei due principali candidati presidenti.

(Foto Mario Tosti)

A leggere i ricordi su Chiaravalloti dei protagonisti di quella stagione è evidente che prevale il personaggio che non divenne mai leader politico e tantomeno forse fu governatore. La sua simpatia innata, la nota attitudine allo spettacolo coltivata da giovane universitario con l’amico Paolo Villaggio ne fecero un personaggio della neocostituita Società dello spettacolo calabrese che sperimentava flebilmente nuove narrazioni.
Chi era cronista in quel tempo è testimone del fatto che il presidente fu “gestito” da Roma e da Milano da uomini e donne dell’entourage berlusconiano che offrivano vetrine mediatiche e vestiti editoriali al brillante magistrato originario di Satriano, colto nel linguaggio e che aveva anche l’allure di chi da solo, pur provenendo da famiglia subalterna, ha saputo prendere l’ascensore sociale al momento giusto e diventa ancora più rispettato in società.
Chiaravalloti, che ricordo molto cortese e puntuale nel concedere le interviste, era una sorta di Forlani postmoderno che senza il profluvio democristiano di Arnaldo parlava bene sapendo fronteggiare la situazione.
Un funzionario finiva in manette e lui senza scomporsi ti rispondeva: «Avevamo avvertito che qualcosa non andava. All’inaugurazione dell’anno giudiziario, alle garbate osservazioni del Procuratore Leone, io ho preso la parola per ringraziarlo delle segnalazioni e dell’attività collaborativa assicurando che la macchina di controllo era già in moto». Opponevi che la Regione aveva 2000 impiegati in esubero e continuava ad assumere e lui senza scomporsi con il sorriso sulle labbra proferiva: «È una situazione difficile che abbiamo ereditato da trent’anni di governi quasi tutti di centrosinistra. Io ho fiducia che riusciremo a sbrogliare questa intricata matassa». La matassa restò immobile e non si sbrogliò, e la Calabria andò avanti con la politica dei piccoli passi e tirando a campare tra consociativismo storico e liturgie che affliggevano l’uomo della società civile che tentò con una giunta di professori di smuovere le acque che alla fine resteranno molto chete.
Fu alleato per l’immagine di Chiaravalloti il plenipotenziario Rai calabrese Agostino Saccà che garantiva visibilità. Si smentivano gli allarmi di Prodi e del commissario Barnier sulla mancata spesa dei fondi europei ma si sapeva smentire e produrre documenti del “ma, sì, però”. Cadde l’assessore all’Urbanistica Bonaccorsi incastrato da Gian Antonio Stella sui titoli di studio farlocchi. Il povero don Peppino difende, annuncia querele, convoca conferenze stampa ma Bonaccorsi è costretto a dimettersi. L’uomo del Ponte dell’epoca era Aurelio Misiti ma anche lui deve lasciare. Si era chiamato anche un uomo di Ciampi, Massimo Bagarani, ma anche quel supertecnico gettò la spugna sull’attacco alla diligenza del Bilancio dei famelici consiglieri regionali. Governare la Calabria è difficile.

Chiaravalloti
(Foto Mario Tosti)

C’è una foto chiave del periodo Chiaravalloti. Ritrae la riunione a Copanello in cui il presidente calabrese era riuscito a convocare tutti i governatori italiani per parlare del montante federalismo. Mettono tutti la mano uno sull’altra a dimostrare solidarietà. Sarà pubblicata da tutta la stampa italiana molto più letta di adesso. Le riforme istituzionali resteranno in Calabria al palo. Tutti i colleghi di centrodestra di Chiaravalloti presenti in quella foto saranno ricandidati tranne Chiaravalloti. Era sceso di gradimento assediato dal disastro del camping di Soverato, dal Piano della formazione copiato negli uffici dalla Regione Toscana, dei 300 uffici della Regione ancora dispersi all’epoca tra centro e periferia di Catanzaro.
Una Calabria sgangherata si preparava al pendolo della Seconda Repubblica calabrese rimanendo sul meridiano di Catanzaro. Circolava all’epoca una leggenda urbana che raccontava di un tavolo di poker catanzarese cui giocassero Chiaravalloti, Agazio Loiero suo vicino di casa, e l’emergente Sergio Abramo. A domanda diretta Loiero, abile giocatore di poker, ha detto che il suo tavolo non era quello. In queste ore Loiero ha ricordato l’avversario politico con la prosa accorata che gli è propria scrivendo di Chiaravalloti: «Spesso era costretto a scontrarsi con l’uomo totus politicus che, grazie all’ironia, in cuor suo non amava».
Un altro ricordo merita menzione speciale. Quello di Saverio Zavettieri, il socialista che con i suoi voti a destra fu determinante nella vittoria di Chiaravalloti e che fu suo fedele assessore. Zavettieri scrive che il suo presidente gli fu molto vicino quando subì un attentato mortale in casa nel 2004 e aggiunge: «Forse anche a seguito del suo atto di sfida nei confronti dei gruppi della maggioranza a tenermi in giunta nonostante la loro sfiducia e la richiesta formale di sostituzione». Ne sapremo di più in un libro-intervista a Zavettieri di prossima pubblicazione cui Chiaravalloti dal letto di ospedale è riuscito a scrivere la prefazione.
Per Chiaravalloti rimasero anche le contese giudiziarie con Luigi De Magistris. Un’intercettazione diventò Vangelo dei giornali e dei siti giacobini. Quella in cui don Peppino irato dice al suo interlocutore: «Questo è un pagliaccio, insomma. Ha scomodato un sacco di gente, ha dato fastidio a un sacco di gente, clamore mediatico. Se Dio vuole che le cose vadano come devono andare… lo dobbiamo ammazzare? No, gli facciamo cause civili per risarcimento danni e ne affidiamo la gestione alla camorra napoletana… non è che io voglio soldi».
Era uno sfogo evidente dove l’ironia del magistrato si univa al paradosso, ma la frase aizzò non poco gli schieramenti su chi aveva ucciso in magistratura il pm di Catanzaro. Come è noto Chiaravalloti sarà assolto e De Magistris defenestrato trovando una carriera politica di grande successo.
E forse per questo la vera foto simbolo di don Peppino è quella che balla con Daniela Santanchè lontana dagli scandali odierni. Un politico per caso che riuscì a sopravvivere al riti tribali della politica con l’ironia, le barzellette e la neonata società dello spettacolo calabrese. (redazione@corrierecal.it)

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(In copertina Chiaravalloti e Santanchè)

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