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Una “Natività” di scuola fiamminga, 1460 circa (particolare) – The Friedsam Collection, Bequest of Michael Friedsam, 1931
In una scena del film Freud. L’ultima analisi, da poco uscito nelle sale italiane, si vedono J.R.R. Tolkien e C.S. Lewis discutere sul loro amore per la letteratura antica, passeggiando una sera in un bosco. A un certo punto Tolkien chiede all’amico, che era solito emozionarsi i miti greci e nordici, come non potesse considerare altrettanto la vicenda di Gesù, il Dio che si era incarnato per farsi compagno degli uomini nella realtà, non solo nella fantasia. Capace di capovolgere, come avrebbe scritto René Girard, il mito del sacrificio facendosi vittima egli stesso per salvare l’umanità. Un discorso che alla fine spinge Lewis alla conversione. La conversazione appena descritta accadde nella notte del 19 dicembre 1931. Il film diretto da Matt Brown mette in scena invece un incontro immaginario, nella Londra sconvolta dall’inizio della Seconda guerra mondiale, fra il fondatore della psicoanalisi e lo scrittore inglese. I due discutono appassionatamente delle proprie opinioni sul mondo e sulla fede, restando alfine entrambi fermi nelle proprie convinzioni: Freud irremovibile nel considerare le religioni, cristianesimo compreso, solo come favole inventate dall’uomo per dare un senso alla vita, Lewis altrettanto sicuro delle proprie certezze; l’unico terreno cui sui si trovano concordi è la difficoltà estrema di dare una spiegazione all’esistenza del male e del dolore innocente in particolare.
Spiegazione che i cristiani ritrovano in quel Dio che si fa carne che rappresenta l’unicità della fede cristiana, la sua differenza abissale rispetto a ogni altra religione. Lo spiega bene Giuliano Vigini, grande esperto di editoria ma anche autore di varie opere di letteratura cristiana antica, nel volume Gesù. La storia, la fede, l’annuncio (Sanpino, pagine 190, euro 16,00): «Il farsi uomo di Dio in Gesù Cristo è il contenuto essenziale della Rivelazione. Ad una certa ora della storia, il preesistente Verbo eterno di Dio – quello che Giovanni nel Prologo chiama il Logos – assume la natura umana e prende stabile dimora tra gli uomini». Vigini ci regala una nuova vita di Gesù senza seguire tanto impulsi di tipo letterario, sulla scia di Papini, Mauriac, Pomilio, Santucci e Parazzoli, ma restando ancorato ai dati biblici e tenendo conto delle acquisizioni anche più recenti dell’esegesi contemporanea. Se si vuole trovare un’opera affine a questo studio occorre semmai rifarsi alla Vita di Cristo dell’abate Giuseppe Ricciotti e alla trilogia di Joseph Ratzinger Gesù di Nazaret. Il volume entra nel dettaglio degli elementi storici della vita di Cristo, come la data della nascita che si colloca fra il 6 e il 4 a.C., e spiega come fin dai tempi di Ippolito di Roma, scrittore cristiano vissuto fra il 165 e il 225, si ritenne che tale giorno fosse il 25 dicembre. Si ripercorre poi la questione della storicità dei Vangeli e si entra nel merito del significato più profondo del messaggio evangelico, con la preferenza data da Gesù ai poveri e agli emarginati, ai bambini e alle donne, e una predicazione nel segno della carità e del perdono. Una novità assoluta nel corso della storia.
Anche Vittorio Sgarbi, nel suo Natività. Madre e Figlio nell’arte (La nave di Teseo, pagine 370, euro 24,00), ripercorrendo le più grandiose rappresentazioni artistiche della vicenda di Cristo, ne rimarca l’originalità radicale rispetto alle visioni del mondo precedenti. Mentre nel paganesimo «gli dei sono lontani, grandi, irraggiungibili, la religione cristiana propone un rovesciamento di questo rapporto e sostituisce alla forza e alla potenza l’amore». L’emblema è proprio la rappresentazione della Madonna con il Bambino: «La religione cristiana non mostra il potere di Dio ma la semplicità degli affetti tra la Madre e il Bambino, in Giotto come in Pietro Lorenzetti, come in Vitale da Bologna, come in Giovanni Bellini, come in Bronzino, come in Caravaggio. Il soggetto è semplicemente la vita, e la maternità la più umana delle condizioni, che nella Natività diventa un fatto religioso e determina il destino di quel bambino e dell’umanità che trova la salvezza in quel neonato». Spicca in questo florilegio la Madonna del parto di Piero della Francesca, senza dimenticare l’interiorità di Maria espressa nell’Annunciata di Antonello da Messina e l’ombra del dubbio che trapela nell’Adorazione dei Magi di Leonardo. Ancora, la ritrosia di Maria nell’Annunciazione di Lorenzo Lotto o il mistero della notte nella Natività trafugata di Caravaggio. Non tanto la divinità quanto l’umanità di Cristo è celebrata in questo viaggio fra arte e letteratura che ribalta il j’accuse verso il canto di lode di Maria di Charles Maurras, secondo cui «la grandezza del cattolicesimo è di aver purgato la Chiesa dal veleno del Magnificat». Sgarbi non nasconde la preferenza verso la Pietà Rondanini di Michelangelo, opera incompiuta che ci dice che la morte non avrà l’ultima parola. Nessun protagonista della storia delle religioni è mai stato tanto rappresentato nell’arte come Maria di Nazaret: guardando le opere mirabili contenute in questo libro si smentiscono anche le falsificazioni dolciastre e sentimentalistiche di tante sue raffigurazioni, permettendoci di tenere lontana ogni immagine accomodante e borghese dell’annuncio cristiano.
Su questa scia si pone anche l’ultimo libro di Giovanni Cesare Pagazzi La vanga del Nazareno (Qiqajon, pagine 118, euro 10,00), che espone cinque pensieri su Cristo come vie d’ingresso per capirne il mistero e lo fa in maniera brillante, come già in altri suoi volumi fra cui il curioso La cucina del Risorto (Emi 2014). Il primo pensiero riguarda la voce del Signore, la potenza della sua parola – capace di farsi silenzio, ci suggerisce l’ultimo capitolo – sia quando esprime sentimenti di pietà sia quando grida contro le ipocrisie del tempo. Il capitoletto che dà titolo al libro è un elogio della terra, verso cui Gesù si china per scrivere col dito scagionando l’adultera processata dai farisei. Pagazzi rileva «il savoir-faire contadino di Cristo che si muove con disinvoltura nelle pratiche tipiche della campagna». Ma i pensieri più inattuali sono quelli che riguardano il rapporto fra Cristo e Satana, il Divisore, e l’idea del Paradiso. «Se la fede e i suoi contenuti – sottolinea l’autore – non toccano e non configurano l’immaginazione, perdono di vista quell’originaria parentela, smarriscono la carne, capolavoro delle mani di Dio, regina di tutta la creazione, sorella di Cristo. Il fatto che stiamo diventando incapaci di immaginare il paradiso è sintomo di due profonde debolezze nella pratica della fede e della pastorale».
Parole adatte a questo Natale che celebriamo tra tante luci e tante ombre: l’Osservatorio sull’intolleranza e la discriminazione contro i cristiani in Europa ha documentato negli anni recenti oltre mille attentati verso le chiese francesi, con incendi, furti e atti sacrileghi, e nel Regno Unito oltre 700 atti di ostilità verso la fede; ancora, il divieto nelle scuole pubbliche d’Oltralpe di fare riferimenti espliciti alla Natività di Cristo proponendo i calendari dell’Avvento. Per non parlare delle persecuzioni in tante parti del mondo, dalla Nigeria al Nicaragua, dalla Cina al Medio Oriente. A tutto ciò ha fatto da contrappunto positivo la riapertura della cattedrale di Notre Dame, uno degli eventi più significativi di questa fine 2024: grazie anche alla mobilitazione dei credenti d’Oltralpe è rinato il simbolo della fede cristiana e della coscienza dell’Europa.
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