Reportage da Agrigento, capitale della Cultura: i templi, i rifiuti, zero info point (e quel milione buttato per il concerto de Il Volo)

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di
Gian Antonio Stella

Sabato la cerimonia con il presidente della Repubblica Sergio Mattarrella. Il nodo dei fondi e la svolta mancata. Il caso del viadotto Morandi, malmesso

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Occhio alle date. Mentre il 2 febbraio 2024 a Gorizia e Nova Gorica, decise a cogliere l’occasione d’essere insieme Capitale europea della cultura 2025, si apriva il cantiere edile per cambiar faccia al piazzale comune che ai tempi della guerra fredda era diviso col filo spinato sotto un’enorme stella rossa titina, ad Agrigento, capitale italiana della cultura 2025, pensa e ripensa, undici mesi dopo aver avuto la «nomina» governativa, stavano elaborando come varare una fondazione per decidere. Fondazione varata dopo qualche altro mese. E ancora oggi, a quarantotto ore dall’arrivo di Sergio Mattarella al teatro Pirandello (riparato precipitosamente dopo il video gocciolante su un concerto) senza una sede, un telefono e men che meno un info point per le orde agognate di visitatori. Auguri.

«È un evento unico per la nostra città», ha spiegato il sindaco Francesco Micciché presentando a Roma, senza il ministro Alessandro Giuli e il presidente regionale Renato Schifani affaccendati in innumerevoli impegni, la lista degli eventi. Per questo, dice, punta «tantissimo sul decoro, la pulizia, l’arredo urbano, i servizi, cioè rendere Agrigento un po’ più europea». 




















































Primo intervento: la rimozione l’altro ieri di un cartello appeso davanti a un antico pozzo bello ma a secco: «Agrigento capitale mondiale della sporcizia e della mancanza d’acqua». E la rimozione dei sacchi di pattume lasciati un po’ qua e un po’ là lungo le strade o nei dintorni del Parco Icori costruito sul costone del monte dopo la frana del 1966 per ricordare il trauma e l’esodo di centinaia di abitanti e oggi abbandonato al degrado? Arriverà… Una lapide sul muro della Chiesa dell’Addolorata sopravvissuta alla frana sulla via oggi dedicata a Ciccio Farruggia, lo spazzino che invece di scappare corse casa per casa ad avvertire tutti del pericolo, invita: «Tu che passi per questa via / dici di cuore un’avemaria».

Ce n’è bisogno. E non solo per chi si avventura in auto sotto le pareti di tufo a picco nelle quali, inquietanti, si vedono le case scavate nella pietra e devastate dallo smottamento. Ma anche per chi affronta, col carico di incubi genovesi, il viadotto Morandi che rappresenta la sgarrupata porta di accesso ad Agrigento per chi viene con la «fondovalle» da Sciacca. Un ponte così malmesso, con quel cemento armato eroso dal tempo capace di togliere il fiato a chi lo guarda da sotto, che da anni e anni, dopo essere stato anche chiuso completamente, ha due corsie su quattro sbarrate e le altre due divise da una barriera eternamente provvisoria di grate e teli sbrindellati. Cose che evidentemente non vengono quotidianamente notate da chi gonfia il petto e trombetta: ma quanto è bella la Valle dei Templi e quanto è bella la sua luce e quanto è bello il sole e quanto profumano le ginestre…

Tutto vero, tutto verissimo. Quella che per Pindaro era «la città più bella dei mortali» merita sul serio di essere vista, amata, coccolata. Anche curata, però. Perché, come scrive Salvatore Settis, «la tutela non può finire un centimetro più in là del limite di un tempio». Capiamoci, sarebbe ingiusto scaricare le responsabilità del degrado attuale sull’ultimo, il penultimo o il terzultimo sindaco. Ci sono però decennali responsabilità collettive degli amministratori che pesano come macigni. 

Basti vedere il disordine urbanistico e il pattume cementizio della frazione di Villaseta dove furono trasferiti gli sfollati della frana del 1966. A partire dallo scheletro immondo dello stadio da rugby sbranato dalle erbacce, del palazzetto dello sport costruito «per strappare alla strada i ragazzi alla deriva» e poi usato come sede di un maxiprocesso alla mafia e infine abbandonato come un cadavere insepolto. O ancora il Campo scuola di atletica leggera del Coni dove, negli anni buoni in cui arrivò all’oro olimpico e al record mondiale, si allenava la grandissima Sara Simeoni.

Un orrore: ciò che resta delle gradinate in marmo, della pista rossa, degli spogliatoi emerge da una giungla informe che si è divorata tutto, col prato centrale brucato da un cavallo solitario.

E ti chiedi: ma davvero, di questi tempi, valeva la pena di buttare un milione di euro per il concerto de Il Volo nella Valle dei Templi con gli spettatori in cappotto ad agosto per fingere un concerto di Natale falso quanto il Tempio della concordia fasullo abusivamente edificato nei dintorni anni fa come richiamo di un bar paninoteca? O altre centinaia di migliaia di euro per il Telamone-Frankenstein («Siamo nani sulle spalle di giganti, figuriamoci un assessore sulle spalle d’un telamone», ironizza Adriano Sofri) composto mettendo insieme novanta pezzi di otto telamoni diversi? Possibile che di tutti soldi in arrivo pare non ci sia un euro per interventi strutturali che restino anche «dopo»? E quanti sono questi soldi in arrivo?

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Non è chiarissimo. A Pesaro, dice il vicesindaco Daniele Vimini che si occupò dell’annata da Capitale italiana della cultura appena finita con un abbondante 30% in più di visitatori e il coinvolgimento di tutti i cinquanta comuni della provincia, l’evento ha visto l’impegno di «un milione del Comune, uno della Regione, uno dello Stato, due e mezzo di sponsor vari». Ed è rimasta alla città, nel suo cuore di Piazza del Popolo, la spettacolare e avveniristica Biosfera. 

A Girgenti, accusa Antonino Nenè Mangiacavallo, il docente universitario presidente del comitato per «Agrigento capitale» defenestrato dopo aver vinto la gara con le città concorrenti, «resterà zero. Anzi, la vergogna di aver trattato questa occasione davvero unica senza un progetto complessivo, come fosse una sagra del mandorlo in fiore. Senza la consapevolezza che occorreva usarla per rifare la città». A Gorizia e Nova Gorica 60 cantieri aperti e in buona parte chiusi, ad Agrigento boh…

Eppure, stando a quanto ha spiegato l’altro ieri il direttore generale della fondazione Roberto Albergoni, «sono stati stanziati 6,3 milioni, la metà dei quali già erogati dal Comune». Ma altri dovrebbero arrivare. «Le polemiche noi le azzeriamo», ha assicurato l’assessore regionale alla Cultura Francesco Paolo Scarpinato, diplomato all’Istituto alberghiero e sottufficiale dell’Esercito deciso, nella scia di Trump, a «fare la Sicilia sempre più grande come merita questa terra, la più bella del mondo». Evviva.

Dovrebbero arrivare, giurano gli entusiasti, «due milioni di turisti in più». Peccato che, come ha riconosciuto Francesco Picarella di Federalberghi, «siamo in grande ritardo». E che anche dopo la riapertura del Palacongressi chiuso per anni a causa d’una falda freatica nelle fondamenta (il colmo per una città afflitta dalla penuria d’acqua e devota all’unica sorgente che butta sempre, quella mitica di Bonamorone) resti chiuso e infestato da erbacce l’albergone con più camere, il Grand Hotel. E malinconicamente chiusi l’hotel Concordia, l’hotel Belvedere, l’hotel Pirandello… Ma niente paura, come dice la scritta che regge accanto alla stazione ferroviaria, deserta, «We love cultura».

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16 gennaio 2025 ( modifica il 16 gennaio 2025 | 08:27)

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