La “manosphere” su TikTok: quando l’algoritmo alimenta la misoginia

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Con quasi ventitré milioni di utenti mensili in Italia e più di un miliardo e mezzo di profili attivi nel mondo, il social network TikTok si sta affermando come una delle piattaforme più popolari, in particolare tra i giovani e i giovanissimi, che vi trascorrono in media più di un’ora al giorno (Meltwater, 2024).

Basata quasi esclusivamente su video brevi, come è ormai ben noto, l’applicazione presenta ai propri utenti un flusso continuo e difficilmente prevedibile di contenuti, scelti appositamente da un algoritmo proprietario sulla base delle interazioni precedenti (Klug, Qin, Evans, & Kaufman, 2021): se, da un lato, ciò permette un’esperienza altamente personalizzata, dall’altro, rende evidenti alcuni rischi, diversamente modulati secondo le declinazioni che i post assumono. In questo senso, emergono in particolare contenuti che, nonostante l’esplicito divieto previsto dalle linee guida della piattaforma (Banet-Weiser & Maddocks, 2023), diffondono messaggi discriminatori e finanche di odio, in ispecie, per quanto qui di interesse, nei confronti delle donne.

La manosphere e la sua espansione

La genesi di quella che configura una esplicita propaganda maschilista va rintracciata negli spazi digitali della cosiddetta “manosphere”: un insieme di blog e social network meno frequentati e non moderati, in cui si sono create comunità di discussione in relazione alla maschilità e alla sua presunta crisi (Ribeiro, et al., 2021) in termini oppositivi al movimento di liberazione femminile (Ging, 2019) e che oggi sfruttano la capillarità, l’esposizione e la possibilità di condivisione insita nelle piattaforme social come TikTok per trovare nuovo terreno fertile e una via di normalizzazione (Solea & Sugiura, 2023).

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Attraverso contenuti facenti leva ora su un apparato emotivo tipicamente fragile, ora su spiegazioni pseudo-scientifiche (Solea & Sugiura, 2023), i content creator della manosphere contribuiscono a diffondere messaggi sessisti e misogini ad un pubblico sempre più ampio e sempre più giovane.

Impatto sui giovani e dati generazionali

L’impatto che simili messaggi hanno sulla popolazione emerge dalle indagini più recenti, secondo cui la più parte dei ragazzi della cosiddetta “generazione Z” non si dichiara femminista, contro la maggioranza delle coetanee e dei maschi della generazione precedente (Cox, Eyre Hammond, & Gray, 2023). Parimenti, i più giovani sono convinti, più degli ultrasessantenni, che essere uomini, oggi, sia più difficile che essere donne (Campbell, May, & Duffy, 2024).

Analisi della devianza secondo Becker

Non si può, peraltro, pensare che la generazione e la diffusione di simili messaggi siano unicamente il prodotto della devianza di un ristretto gruppo di persone (Solea & Sugiura, 2023). Se è vero, infatti, che ancora oggi esiste un sistema sociale fondato sullo sfruttamento delle donne da parte degli uomini (Wittig, 1992), cioè se è vero che la disparità tra i generi non solo è evidente nelle pratiche discorsive (Butler, 1996) attorno agli stessi, ma anche nella materialità in cui la stessa si manifesta – e segnatamente nella violenza di genere e contro le donne – allora può considerarsi finanche scorretto considerare la “manosphere” una forma di devianza.

Nella sua definizione relativistica della devianza, Howard Becker, suggerisce come essa non nasca dalla violazione di norme accettate, ma sia invece un prodotto della società stessa che “crea la devianza istituendo norme la cui infrazione costituisce la devianza stessa” (Becker, 2017, p. 30). La devianza, cioè, non insiste sulla qualità dell’atto commesso, bensì consegue alla riuscita applicazione di un’etichetta ad un soggetto, che perciò sarà considerato deviante, non rilevando tanto i giudizi aprioristici del gruppo sociale, quanto più le reazioni ex post. Se, dunque, la discriminazione delle donne online si inserisce in un contesto “offline” già discriminatorio, la creazione e la diffusione di video che fanno leva sulla fragilità degli adolescenti e dei giovanissimi non possono, per loro stesse, considerarsi una forma di devianza, ma anzi sono il prodotto – e, per le forme che assumono, il modo di produzione – del sistema sociale stesso.

Teorie criminologiche e sottoculture

Di qui, la riconduzione della misoginia online alle principali teorie criminologiche può essere un esercizio complesso. La spiegazione della criminogenetica e della criminodinamica richiede infatti un fenomeno criminale, qui assente, se non in via eventuale e sussidiaria, cioè come conseguenza possibile dell’esposizione ai contenuti in esame. Ciò che, peraltro, può facilitare il collegamento ad un particolare filone della sociologia della devianza è la considerazione della “manosphere” come una subcultura. In questa direzione si pone, ad esempio, la teoria delle sottoculture delinquenziali di Albert Cohen, che prende a sua volta le mosse da due importanti formulazioni sviluppate nella prima metà del Novecento: la teoria delle associazioni differenziali di Edwin Sutherland e la teoria dell’anomia di Robert Merton.

A partire dalle evidenze della Scuola di Chicago, che postulava il comportamento umano quale prodotto di simboli sociali scambiati tra individui (Williams & McShane, 2002), Sutherland formula una teoria secondo la quale il comportamento criminale è appreso nelle interazioni con le altre persone, non tanto nelle tecniche, quanto più nelle ragioni che lo motivano o giustificano. Un soggetto, scrive il sociologo americano, “diviene delinquente se vi è un eccesso di definizioni favorevoli a violare la legge rispetto alle definizioni che ne prevedono la conformità” (Sutherland, 1947, p. 6-8). Se ognuno “assorbe la cultura dell’ambiente circostante”, allo stesso modo gli utenti di TikTok assorbono i messaggi che vengono loro veicolati e li riproducono, con le relative conseguenze, anche estreme. Ciò che di fondamentale va considerato in questa analisi, peraltro, sono le forme che assume l’associazione differenziale. L’avvicinamento ai “pattern” misogini, infatti, è la conseguenza di una profilazione algoritmica, che può principiare dagli interessi più diversi o dalla ricerca di aiuto e che in poche ore o giorni proporrà contenuti sempre più radicalizzati ed estremisti (Reset Australia, 2022; Regehr, Shaughnessy, Zhao, & Shaughnessy, 2024), con l’unico obiettivo di generare maggior engagement, quindi profitto per l’azienda proprietaria della piattaforma (Wilson, Fisher, & Seidler, 2024).

L’algoritmo, in questo senso, enfatizza quella che Merton chiama anomia come distanza tra due dimensioni fondamentali di una struttura sociale: le mete, gli scopi definiti culturalmente come obiettivi legittimi per tutti i membri della società; e i modi accettabili secondo i quali tali mete possono essere raggiunte (Merton, 2000). In questa analisi, la meta del “sogno americano” di Merton viene sostituita da quella che Raewyn Connell chiama “mascolinità egemonica”, come forma espressiva dominante della maschilità che “incarna la risposta condivisa in un dato momento al problema della legittimità del patriarcato” (Connell, 2020, p. 77). In questo senso, i giovani che non riescono a riconoscersi nella definizione egemonica della maschilità che la società impone – l’uomo breadwinner, che riesce ad avere relazioni con le donne, nel gergo, l’uomo alpha -, possono adottare le strategie di adattamento che Merton individua e che segnano proprio l’anomia del substrato sociale: l’innovazione, come sfruttamento di mezzi proibiti ma efficaci per ottenere i risultati richiesti; il ritualismo, come rinuncia alle mete per ricorrere ai soli mezzi legittimi; la rinuncia, per cui si abbandonano scopi e strumenti legittimi; e, infine, la ribellione, che si concentra sulla radicale sostituzione delle mete e degli stessi mezzi per raggiungerle. Analizzando le figure stereotipiche della manosphere (Ribeiro, et al., 2021), infatti, è possibile ricondurvi le strategie mertoniane, che possono risolversi ora nella rinuncia alla ricerca di una partner, ora nella eliminazione – concettuale o materiale – delle donne, riconosciute come un ostacolo al raggiungimento dell’egemonia maschile.

In questo modo, si forma una sottocultura di persone che, non riconoscendosi più negli obiettivi che la società – maschile – impone, crea “nuove norme, nuovi criteri di considerazione sociale che definiscano meritorie le caratteristiche da essi possedute di fatto, cioè i tipi di condotta di cui essi siano di fatto capaci” (Cohen, 1974, p. 64). Una subcultura che tipicamente non ha fini utilitaristici, che non agisce comportamenti “devianti” per soddisfare un bisogno estrinseco materiale (ad es. di denaro), bensì per riconoscersi vicendevolmente in valori e status costruiti su misura (Williams & McShane, 2002).

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Soluzioni e prospettive

Il panorama che si apre a valle dell’analisi di un problema complesso non può individuare una risposta univoca. Una soluzione opportunistica principia dalla mera corretta applicazione delle linee guida delle piattaforme social, le quali dovrebbero attivarsi per eliminare i contenuti che incitano all’odio, in questo caso contro le donne. Piattaforme che, però, sono economicamente interessate alla diffusione di simili messaggi, che possono aumentare i loro profitti, nonostante il rischio di ripercussioni legali, come riporta la cronaca più recente. D’altro canto, una soluzione radicale postula il superamento della normatività del genere, e specialmente della necessità di una mascolinità egemonica, per ripensare una “maschilità pluralistica” che agisca nel dominio della possibilità.

A valle di un problema che, se vede nella tecnica del mondo digitale una sua estrinsecazione e nuove forme di riproduzione, non anche ivi si ricostruisce nella sua natura, che è invece storica, sociale, culturale e persino economica, non si può immaginare la sola tecnica come una soluzione possibile. Parimenti, dall’alveo delle risposte che una società può dare ad un comportamento dannoso, può considerarsi altrettanto limitata anche la mera criminalizzazione da parte delle cc.dd. agenzie del controllo sociale formale. Se è vero che, riprendendo le parole di Alessandro Baratta (1985), la general prevenzione negativa altro non è che strumento ideologico, cioè utile a produrre nella società un consenso attorno ad un’immagine ideale del suo funzionamento, non possiamo già immaginare lo strumento giuspenale come “panacea” contro ogni male.

Strategie di intervento: il ruolo delle piattaforme

Si possono dunque pensare e costruire due aree di azione, preventiva e di contrasto, in risposta alla diffusione di contenuti misogini, online e offline. Da un lato, come suggerito supra, si collocano gli strumenti adottabili dalle piattaforme, e in via sussidiaria dagli Stati o dagli ordinamenti sovranazionali, per limitare, prevenire o rimuovere i contenuti di odio. In questo solco emerge il Digital Service Act (Reg. 2022/2065/UE), che promuove sia una co-regolamentazione delle piattaforme, in linea con il contrasto all’hate speech, sia strumenti di accountability delle stesse. Se è vero, però, che i principali social network adottano politiche di prevenzione e contrasto, è altrettanto vero che la rete dà infinite possibilità di creazione di nuovi spazi di aggregazione, almeno in parte al di fuori della stretta regolamentazione delle piattaforme più frequentate. Esistono infatti decine, se non centinaia, di blog e siti internet che diffondono messaggi riconducibili alla manosphere (Botto & Gottzén, 2023) per come qui brevemente delineata, cui l’accesso è libero e possibilmente direzionabile anche utilizzando proprio quei social – almeno parzialmente – regolati. Anche, dunque, immaginando il “migliore dei social possibili”, in cui sono implementati sistemi di analisi preventiva dei contenuti attraverso algoritmi inferenziali automatici (ossia di c.d. “intelligenza artificiale”) che riconoscano ed eliminino immediatamente i contenuti di odio, limitandone enormemente la diffusione – e qui, peraltro, emergerebbe con ancora più veemenza il tema della libertà di parola nell’anfiteatro digitale delle piattaforme private – permarrebbero infiniti altri spazi, sostanzialmente incontrollabili e incontrollati.

Conclusioni: l’importanza dell’educazione

Per questo motivo, l’altro alveo di azione muove dalla suggestione che quella della manosphere sia da considerare una vera e propria subcultura. Accordato ciò, bisogna dunque principiare da quei “criteri di status” (Cohen, 1974) che la società richiede ai ragazzi e che generano anomia. Per fare ciò, lo strumento principe non può essere che quello educativo, a partire dal contesto familiare, finanche in età pre- e neonatale, fino a giungere alla scuola di ogni ordine e grado, persino sfociando poi negli studi universitari. Nello specifico, ciò che è necessario fornire ai bambini e ragazzi, e quindi anzitutto a genitori e docenti, è una contro-narrazione, un’idea alternativa a quella rigida cornice di regolamentazione (Butler, 1996) che si intesta la normazione del genere.

Attraverso l’alfabetizzazione ai diritti umani che ne comprenda anche la loro evoluzione storica, la formazione al pensiero critico e, anche più semplicemente, con un’educazione alle relazioni che si fondi, da un lato, sul riconoscimento della piena parità tra i generi, ma che, dall’altro, introduca anche alle molteplici possibilità espressive degli stessi, è possibile scardinare quella mascolinità egemonica che tanto danneggia i più giovani. Tutto ciò, ça va sans dire, all’interno di una cornice che tenga conto dello “spettro” del digitale, che tanto coinvolge i ragazzi e le ragazze che sarebbe inutile distinguere rigidamente il mondo fisico da quello virtuale, nell’agire e reagire dei loro comportamenti. Ciò significa adottare un approccio sempre multidisciplinare, che non si limiti a trasmettere ora digital skills, ora conoscenze in ordine alle Carte di diritti, ma che anzi integri costantemente le due dimensioni, donando una complessità che rispecchi quella breve distanza tra la nostra testa e il dispositivo che teniamo in mano.



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