Blind sale o “vendita alla cieca”: che preferiate la versione inglese o quella italiana, il concetto è analogo. Si tratta di acquistare un pacco chiuso senza conoscere il suo contenuto. E se l’idea vi sembra un azzardo … beh, lo è! Se ne sta parlando molto in questi giorni perché dal 14 gennaio, e fino a domenica 19 gennaio, un’asta del genere si tiene a Roma. Più precisamente a RomaEst, in uno dei più noti centri commerciali della capitale, per 6 giorni ci sarà l’iniziativa messa in piedi da King Colis, startup francese che si occupa di acquistare e recuperare i pacchi spediti dagli e-commerce non reclamati, per poi rivenderli a prezzi molto vantaggiosi sul sito e nei loro pop-up store.
“Ogni anno, in Europa – scrive King Colis – milioni di pacchi ordinati via Internet vanno persi per vari motivi, spesso a causa di informazioni errate sull’indirizzo. In precedenza, una volta rimborsati i destinatari, questi pacchi non consegnati venivano distrutti dalle piattaforme logistiche responsabili del trasporto… Ma con King Colis, lo spreco è finito! Recuperando i pacchi smarriti da queste piattaforme, diamo loro una nuova vita e facciamo parte di un approccio eco-responsabile che incoraggia l’economia circolare e contribuisce a ridurre l’impronta di carbonio causata dai rifiuti”.
Di sicuro si può già dire che l’iniziativa ha avuto un ampio successo commerciale, promosso anche dai numerosi articoli giornalistici di questi giorni e dai richiami sui social, tra reel e stories. Ma quanto davvero è circolare un’iniziativa del genere?
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I nostri dubbi sul blind sale
Il blind sale di Roma potrebbe essere il primo di una serie di appuntamenti simili sparsi per l’Italia. I conti, ovviamente, si faranno dopo il 19 gennaio, al termine dell’iniziativa promossa dalla start up francese King Colis. Però qualcosa si può già dire adesso. Andando sul sito e sui social di King Colis si viene ad esempio colpiti dai numerosi richiami in stile “caccia al tesoro”. A Roma, ad esempio, le persone avranno a disposizione solo 10 minuti per scegliere tra 10 tonnellate di pacchi smarriti. Dovranno fidarsi del proprio intuito per beccare qualcosa che possa loro piacere. Nè più nè meno che un azzardo.
E se, come capiterà abbastanza spesso, si troverà qualcosa che non è di proprio gradimento? Si potrà barattare il contenuto con un altro, già all’interno del centro commerciale romano? Oppure quel contenuto diventerà un rifiuto, che poi dovrà essere la stessa persona a dover smaltire?
Dubbi che sul sito di King Colis non vengono chiariti. Nell’ambito della sostenibilità l’unica dichiarazione in tal senso è che “per King Colis la lotta agli sprechi è un valore fondante. Per di più i nostri pop-up store sono costruiti in modo 100% ecologico e con materiali di recupero”. Tuttavia non è chiaro, invece, con quali materiali e con quale impatto ambientale vengono costruiti i “pacchi alla cieca”. Tantomeno non si capisce in che modo poi quei materiali (carta riciclata?) verranno poi smaltiti.
D’altra parte non è neanche vero che iniziative del genere non esistono già. Alcuni aeroporti, come ad esempio quello di Palermo, organizzano a volte delle aste in cui si accaparra i beni dispersi da chi viaggia. In quel caso, però, è possibile vedere i prodotti e dunque si sceglie consapevolmente cosa acquistare, e cioè di cosa si reputa di aver bisogno. Oppure si pensi all’iniziativa di Poste Italiane, che i pacchi smarriti preferisce consegnarli alla Caritas. O ancora agli Swap Party (ne abbiamo parlato qui), che non riguarda pacchi smarriti e dove non c’è un timing da rispettare per gli acquisti ma dove si ridà una seconda vita agli accessori favorendo le relazioni e senza che questo scambio diventi una corsa che punta a “fare affari”.
Più in generale un’iniziativa del genere ci sembra che riproduca il modello consumistico, applicato però al second hand. Non un invito alla sobrietà o allo scambio quanto piuttosto ad accumulare oggetti di cui probabilmente non avremmo mai sentito il bisogno, se non avessimo partecipato a un’asta del genere. Insomma: non è tutto circolare quel che luccica, per dirla con una battuta. Noi restiamo fedeli al motto che “il miglior rifiuto è quello che non si produce”, non quello che in qualche modo rientra comunque nel circuito produttivo.
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