Matteo Renzi compie oggi cinquant’anni e sembra passata una vita da quando ricopriva il posto ora occupato da Giorgia Meloni. Adesso ruota tutto intorno alla destra, alla Garbatella, alla sorella e all’ex cognato e alle tantissime sfaccettature che riguardano la figura di Meloni, la prima donna premier nella storia repubblicana. Renzi, però, fu il più giovane presidente del Consiglio. Correva l’anno 2014: politicamente, un’altra epoca.
Renzi ha velocizzato la politica
La sua scalata al Pd, da amministratore locale fiorentino, venne accolta con curiosità anche da chi di centrosinistra non era. «Vediamo se ce la fa a mandare a casa quella classe dirigente che non si schioda come promette di fare», era il pensiero di tanti, nel momento del tramonto dell’epoca berlusconiana. Impossibile riassumere una stagione politica così densa in poco spazio: la scelta di Sergio Mattarella come presidente della Repubblica, la Buona Scuola, il Jobs Act, le unioni civili, la riforma Delrio sulle Province, Industria 4.0.
Un tempo le cronache erano riempite dal giglio magico, lo scoutismo come palestra di vita, gli ex Margherita, Tony Blair, la rottamazione, il giubbino di Fonzie, l’Enricostaisereno, la newsletter, il patto del Nazareno. Giovane, ma con un pizzico di tutti e tre i grandi “ingredienti” degli anni ’80, il suo decennio formativo: Andreotti, De Mita e Craxi. Ha velocizzato e reso rapida la politica, troppo ingessata, collegiale e dalle infinite discussioni a sinistra, ma l’ha anche ridotta ad un tweet e alle kermesse della “Leopolda”. Le strategie sembravano quelle di “House of Cards”, la popolare serie tv americana, con un ruolo da prim’attore per Denis Verdini.
Se si fosse ritirato davvero?
Ha studiato Berlusconi sul piano comunicativo e dell’immagine, ma non ne ha assimilato alcune lezioni di vita. Arrivato al vertice, ha dispensato più schiaffi che carezze a chi aveva guidato il partito prima di lui. Li voleva proprio rottamare sulla pubblica piazza. Al di fuori del “giglio magico” e dai turborenziani, si è sempre ritrovato circondato da avversari, dalla sinistra bersaniana-dalemiana alla Cgil, che lui stesso stuzzicava di volta in volta. Si è creato i nemici, dentro e fuori il suo schieramento, a suon di attacchi personali e gratuiti. Non ha lavorato per unire, ma ha disgregato. Le inchieste (va detto, finite in niente) hanno poi rovinato la narrazione renziana e la classe dirigente toscana arrivata alla ribalta nazionale: Maria Elena Boschi e Luca Lotti. L’ex boy scout si è incartato su alcune vicende: il Referendum Costituzionale personalizzato, i 15mila euro sul conto corrente sbandierati mentre il suo stile di vita raccontava altro. Soprattutto, il coraggioso tentativo di riformare (in modo pasticciato) la Costituzione, lo ha visto naufragare. Nessuno gli ha perdonato la promessa, mancata, di ritirarsi dalla politica. Se fosse stato fermo un turno, in un centrosinistra sempre a corto di leader, sarebbe arrivato nuovamente il suo tempo. Invece è rimasto, tentando di tornare in sella. Poi ha fatto un partito suo, Italia Viva. Si è lanciato in operazioni discutibili, come il ruolo di testimonial delle bellezze di Firenze o i rapporti con l’Arabia Saudita. O l’unione (abortita) con Carlo Calenda, terminata con un lancio reciproco di piatti. Ha pure fatto cadere un Governo, favorendo l’approdo a Palazzo Chigi di Mario Draghi.
Un politico di razza come Giorgia Meloni
Renzi è un politico di razza. Esattamente come Giorgia Meloni. Lo ricordo prima di un comizio, dieci anni fa, in una piccola città della provincia italiana. Arrivò in treno e si ricordò, senza incertezze, i nomi di battesimo dei primi otto-nove dirigenti locali del partito che lo accolsero per primi. Roba da Prima Repubblica. Oggi cosa è rimasto dell’ex premier fiorentino? Nei giorni di festa tra Natale e l’Epifania, complice l’esagerata assenza di Elly Schlein, in perenne vacanza, è stato il megafono del centrosinistra su tutte le questioni, dalla manovra di Governo al rapimento di Cecilia Sala. È ancora mediaticamente il più efficace, quello più coriaceo dal punto di vista fisico. Da mattatore ha la battuta pronta, la risposta piccata, la controproposta nel taschino (l’ultima quella di trasformare il centro migranti in Albania in un carcere), il gioco di parole, il ragionamento che non fa una grinza. È stato l’unico leader vero, a sinistra, dopo Romano Prodi. Pure in grado di arraffare voti nel campo avversario. Però la sua credibilità è ai minimi. Se si accontenta del suo 1-2 per cento e di suggerire, con la sua verve, un po’ dell’agenda del centrosinistra, e fare il controcanto alla destra, bene così. Uno come lui, però, potrebbe sfruttare il suo talento anche in altri campi. Nel 2013, l’anno della sua ascesa alla segreteria dem, l’obiettivo era quello di guidare il Paese in una grande stagione riformista, come Tony Blair in Gran Bretagna. Non c’è riuscito. Forse è venuto il momento di passare la mano.
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