La Cassazione ha annullato la sentenza di assoluzione del carabiniere Fabio Manganaro, accusato di misura di rigore non consentita dalla legge per avere bendato Natale Hjorth, uno dei due statunitensi condannati per l’omicidio del vicebrigadiere Cerciello Rega. I giudici della quinta sezione hanno infatti accolto il ricorso presentato dai legali di Hjorth, gli avvocati Francesco Petrelli e Fabio Alonzi, contro l’assoluzione con la formula “perché il fatto non costituisce reato” emessa dalla Corte di Appello di Roma il 26 aprile scorso. In primo grado il militare era stato condannato a due mesi, pena sospesa, dal giudice monocratico Alfonso Sabella. Dopo l’annullamento con rinvio si terrà ora un appello bis in sede civile ai soli fini del risarcimento, non avendo la Procura generale fatto ricorso contro l’assoluzione.
I difensori esprimono «apprezzamento per la decisione dei giudici della Cassazione che hanno accolto il nostro ricorso annullando una sentenza visibilmente errata in fatto e in diritto che aveva escluso la rilevanza penale di una gravissima condotta di abuso inaccettabile per uno Stato di diritto».
In attesa delle motivazioni degli ermellini, vediamo gli aspetti più importanti del ricorso dei legali. Alla base di tutto c’è il fatto che i giudici di appello non avrebbero fornito «una motivazione rafforzata» nel ribaltare completamente il primo giudizio assolutorio.
Primo: se il Tribunale aveva evidenziato come, rispetto alle motivazione del gesto, – tra cui quella di voler tranquillizzare il ragazzo -, «l’imputato non le ha esposte sempre allo stesso modo e le varie versioni che ha fornito non appaiono sempre conciliabili tra loro» i giudici di secondo grado giungono alla «insostenibile opposta ed apodittica conclusione».
Eppure Sabella nel motivare la sentenza di condanna aveva evidenziato che se in dibattimento il carabiniere si era giustificato dicendo che quel gesto del bendaggio serviva a calmare il fermato, nella relazione di servizio non aveva fatto cenno a nulla di simile. «Anziché confrontarsi – come sarebbe doveroso – con il percorso argomentativo del primo giudice e di disarticolarne le eventuali erronee affermazioni, la Corte territoriale sceglie di ignorare del tutto quella motivazione, incorrendo nelle sue affermazioni in inevitabili travisamenti della prova» hanno scritto i legali.
La sentenza di secondo grado poi recita: «Deve anche considerarsi che l’azione di copertura degli occhi da parte del pubblico ufficiale nei confronti della persona fermata è condotta ritenuta legittima in molti Stati della Unione Europea e tale circostanza non può escludersi che fosse conosciuta dal Manganaro». Tuttavia, nella sentenza di primo grado, che quindi indirettamente regge agli occhi dei giudici di Cassazione, quella pratica «in Italia rimane pur sempre proibita o, perlomeno, non consentita dalla legge» «non sussistevano certo ragioni di sicurezza o anonimato degli operanti che avevano fermato Natale Hjorth».
Secondo: a dire della Corte di Appello «la scelta del bendaggio degli occhi del Natale è stata presa nella immediatezza, certamente non è stata programmata ed è risultata una azione estemporanea e d’impeto». Al contrario per Sabella «l’asserita istintività del gesto posto in essere da Manganaro sarebbe, a norma di legge, sostanzialmente irrilevante tanto più che allo stesso non è seguita l’immediata rimozione della benda apposta sugli occhi del fermato, che, a tutto voler concedere, è stata mantenuta per almeno mezz’ora». Argomenti che non sono «per nulla scalfiti o comunque superati dalle considerazioni che si leggono nella decisione impugnata».
Terzo: «La motivazione del provvedimento impugnato merita di essere censurata anche nella parte in cui si affronta il tema della sussistenza dell’elemento psicologico del reato» «da individuarsi infatti semplicemente anche in un eventuale cosiddetto, “dolo d’impeto”».
Secondo l’Appello «la condotta tenuta dal Manganaro non è stata accompagnata dalla coscienza e volontà di realizzare la condotta criminosa». Invece, a detta dei legali, non può «obiettarsi che l’imputato non fosse consapevole che con il proprio agire stesse determinando proprio quella limitazione idonea ad integrare un peggioramento delle condizioni di restrizione posto che è stato lo stesso imputato ad affermare nel corso del dibattimento che la finalità del proprio agire fosse il “disorientamento del giovane fermato”».
In pratica «non potendosi altresì negare che il disorientamento di un soggetto privato della propria libertà personale costituisca un palese aggravamento e peggioramento della restrizione legalmente imposta, si giunge alla conseguenza che la motivazione impugnata risulta del tutto erronea in diritto ed illogica nella sua motivazione sul punto».
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