Qatargate, fascicolo impantanato e ancora rinvii

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Il fascicolo sul Qatargate, il presunto scandalo di corruzione che ha scosso il Parlamento europeo, continua a galleggiare senza sbocchi. L’ultima puntata di quella che ormai sembra una saga fantasy è quanto avvenuto all’udienza di martedì 7 gennaio, quando la Camera d’accusa di Bruxelles ha rinviato al 18 e al 25 marzo l’udienza per stabilire chi è parte effettiva del procedimento e come garantire l’accesso al dossier istruttorio.

Dopo questo primo passo, si potrà entrare nel vivo della questione, passando ad una valutazione sulla regolarità dell’indagine, per stabilire, dunque, se i particolari metodi di ricerca della prova utilizzati dagli inquirenti, che si sono ampiamente avvalsi della collaborazione dei servizi, siano stati o meno legali. Un aspetto che verrà discusso nel corso di un’ulteriore udienza, fissata per il 22 aprile.

Insomma, rinvii su rinvii, gli ennesimi. Tanti da apparire ormai sospetti per chi si trova coinvolto nella vicenda. «L’udienza di martedì ha confermato una realtà inquietante: due anni fa la magistratura belga ha acceso un fuoco che ora sembra incapace di domare – ha commentato al Dubbio Francesco Giorgi, ex assistente parlamentare di Antonio Panzeri, principale indagato dell’inchiesta, e marito di Eva Kaili, ex vicepresidente del Parlamento europeo -. I fatti parlano chiaro. Il pubblico ministero e due giudici hanno lasciato le indagini, mentre i tempi del procedimento vengono volutamente dilatati, nel tentativo di far cadere la vicenda nell’oblio. È una situazione paradossale, in cui i ruoli tra accusa e difesa appaiono completamente ribaltati. Tuttavia, siamo certi che alla fine la verità emergerà e sarà fatta giustizia in modo trasparente e imparziale».

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La gestione del caso è stata infatti caratterizzata da numerosi colpi di scena. E da quella che ormai si può definire una consapevolezza: nessuno vuole più mettere mano a un fascicolo che scotta. Così, uno dopo l’altro, i giudici coinvolti nell’inchiesta hanno lasciato la poltrona, senza essere riusciti a cavare un ragno dal buco. A mollare la presa per primo è stato Michael Claise, il giudice che ha firmato gli arresti nel dicembre 2022, in Italia subito ribattezzato il “Di Pietro belga”. Claise aveva lasciato l’incarico dopo la scoperta, da parte delle difese, dei rapporti tra il magistrato e Maria Arena, eurodeputata il cui nome era spuntato più volte durante le indagini, ma tenuto fuori dal fascicolo fino alle dimissioni di Claise.

Il magistrato, secondo cui la democrazia europea sarebbe stata «fottuta» da una corruzione finora ancora non dimostrata, si è poi candidato in politica, aspirando alla poltrona di ministro della Giustizia in Belgio ma incassando una sonora sconfitta, con un partito – DéFi che ha espresso un solo parlamentare. Dopo di lui a lasciare era stato il procuratore Raphael Malagnini, che è passato all’auditorato del lavoro di Liegi. Rimaneva solo Aurélie Déjaiffe, che aveva già avuto in mano il fascicolo prima di Claise e che dalla fine di gennaio entrerà a far parte della Corte d’appello del tribunale di Bruxelles.

Ma sull’indagine pesa anche l’inchiesta del Comitato R – l’organo deputato a controllare le attività della Sicurezza di Stato –, che dovrà verificare il ruolo dei servizi nella vicenda, come chiesto dalla difesa di Andrea Cozzolino, uno degli eurodeputati italiani coinvolti nella vicenda. E questo sarà un passaggio cruciale per valutare che non siano stati violati diritti fondamentali degli imputati, come l’immunità parlamentare, così come contestato anche da Kaili.

Stando a quanto appurato dalle difese, infatti, gli 007 belgi avrebbero di fatto svolto la maggior parte del lavoro, intercettando parlamentari europei senza aver bisogno di alcuna autorizzazione e violando ogni forma di guarentigia. Nonostante ciò, nei rapporti dei servizi non erano emersi indizi a carico di colei che ha garantito visibilità mediatica all’inchiesta, ovvero Kaili, arrestata per via di alcune borse piene di soldi portate via dal padre da casa sua. Ma quei soldi, ha spiegato Giorgi ( anche nel suo caso gli 007 non avevano trovato nulla), appartenevano proprio a Panzeri, diventato in fretta e furia, pentito.

A complicare tutto, infine, l’audio nel quale l’investigatore che ha guidato le indagini, Ceferino Alvarez Rodriguez, conferma che Panzeri non è credibile. Una credibilità sulla quale i dubbi erano già tanti, data la denuncia dei suoi legali, secondo i quali avrebbe confessato su pressione degli inquirenti, in cambio del rilascio di moglie e figlia. La difesa di Marc Tarabella, altro eurodeputato coinvolto, ha chiesto dunque una verifica approfondita su ogni elemento del dossier. «La procedura di collaborazione deve essere esaminata attentamente», ha dichiarato il suo avvocato, evidenziando potenziali irregolarità che potrebbero minare l’intera inchiesta.

La narrazione del Qatargate è stata devastante: una sequenza di veline e bugie, come quella secondo cui Giorgi avrebbe pure accusato la moglie, confermando così i sospetti nei suoi confronti. In realtà, ciò non è mai avvenuto: Giorgi aveva accusato solo se stesso, sotto la pressione di non poter più vedere sua figlia. Ma da quella stanza, dove erano presenti solo giudici, magistrati, avvocati e indagati, la notizia è uscita in modo distorto: per tutti, Giorgi aveva tradito sua moglie. «Mi sono addossato colpe che non avevo per proteggere mia figlia – ha spiegato – Ma hanno scritto che avevo accusato mia moglie. Ma non era la verità, cercavano solo in ogni mezzo per farmi patteggiare».



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