La chiusura di Redattore Sociale riguarda tutti: l’editoria sociale sei te

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Andare sulla home page di Redattore Sociale e trovare, ormai da molti giorni, il titolo “Redattore sociale chiude” è una sconfitta per tutti. Non si può far finta di niente, né basta rubricare lo sconforto nel capitolo ‘crisi generale dell’editoria’.

Non è giusto, per il rispetto che ognuno di noi deve a questa redazione e al Cdr che un mese fa ha diffuso il comunicato di chiusura, annunciata per il 10 gennaio 2025 (https://www.redattoresociale.it/article/notiziario/redattore_sociale_chiude).

Rispetto e solidarietà espressa, da subito, dalla FNSI, dalle associazioni di categoria e dalle organizzazioni sociali del terzo settore. Ogni giornalista, in particolare chi si pone all’interno del percorso dell’informazione sociale, è debitore di qualcosa nei confronti di Redattore Sociale. La cui storia è parte rilevante della storia della comunicazione sociale nel nostro Paese.
Comunque la si voglia chiamare o definire, è la storia di una voce che, a partire dal 2001, ha contribuito a far acquisire consapevolezza e coscienza a tutto il terzo settore sull’importanza dell’informazione e della comunicazione. Un percorso che ha accompagnato la storia del terzo settore nella stagione degli anni ‘90 sino ad oggi, con la riforma del terzo settore completata o quasi. Ha attraversato varie epoche dell’informazione, delle sue trasformazioni tecnologiche ed ha fornito continui spunti e saperi.  Ed ha saputo innovarsi  facendo, scegliendo l’informazione professionale come missione e come sbocco, pur partendo da un’esperienza associativa. E qui rileviamo un primo paradosso: negli anni del riconoscimento del terzo settore come protagonista sociale ed economico del nostro Paese, una sua voce così autorevole, si spegne. Un settore che cresce dovrebbe essere più raccontato, non meno raccontato.

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E’ impossibile elencare i meriti che Redattore Sociale ha addizionato nel corso degli anni, a partire dai seminari per giornalisti che si chiamavano proprio così “Redattore sociale”, proposti annualmente dalla Comunità di Capodarco, a partire dal 1994, con la pubblicazione degli atti e della relativa Guida per l’informazione sociale. Lì si discutevano e si definivano, tra giornalisti, attivisti sociali e ricercatori universitari, i contorni di quella galassia ignorata, trascurata o raccontata in maniera impropria dai media. Quella del sociale, che per finalità didattiche venne suddiviso in cinquanta argomenti di rilevanza collettiva, relativi a disagi emergenti, dalla a di Aids alla T di Tossicodipendenze. Perché bisognava partire dagli strumenti da dare ai giornalisti per poter approcciare una materia complessa, a partire dal linguaggio. Questo il problema di partenza.
E allora dati e informazioni che consentissero di definire quantitativamente un fenomeno che cresceva nella realtà sociale, nelle strade e nelle periferie, ma non nella geografia ufficiale del nostro Paese, definito sommariamente “non profit” e figlio di generiche “associazioni non riconosciute”. Nel 1995 l’Istat prende in esame le sole organizzazioni iscritte nei Registri per il volontariato (8.343 al 31 dicembre 1995). Poi nel 2005 l’Istat fotografò le cooperative sociali (erano 7.363 nel dicembre 2005). Il primo censimento specifico dell’Istat delle istituzioni non profit risale al 2011, con 301.191 organizzazioni e 680.811 dipendenti.

Durante le Giornate di Bertinoro dell’ottobre 2024, l’Istat ha diffuso gli aggiornamenti sui dati degli enti non profit: il loro numero complessivo si attesta a circa 360mila unità, mentre cresce ancora il numero dei dipendenti, raggiungendo i 919.431 (+3%). Se paragoniamo questi dati di crescita alla situazione del comparto della comunicazione nel terzo settore, emerge un secondo paradosso. Cresce la rilevanza economica del terzo settore, dal punto di vista quantitativo, del fatturato che realizza e dei lavoratori occupati. La sensazione spannometrica, non disponendo di dati specifici,  è che diminuiscano gli investimenti e il numero di occupati destinati all’informazione sociale, che è parte di un perimetro più ampio che chiamiamo comunicazione sociale. Di certo assistiamo ad un crollo delle testate registrate da soggetti del terzo settore (erano circa 6.000 all’inizio degli anni ’90), avendo oggi la possibilità di trasferire sul web quelle che erano le testate cartacee, risparmiando sui costi di produzione tipografica e di distribuzione, senza avere l’obbligo l’obbligo di registrazione e di conseguenza la necessità di avere un direttore responsabile che garantiva alla testata validazione giornalistica in termini di credibilità, pertinenza, continenza delle notizie pubblicate. E’ una tendenza generale che riguarda anche il settore pubblico e privato? Certo. Per quanto riguarda il terzo settore va rimarcato che, così facendo, si rinuncia ad informazione di qualità dal basso, di comunità, indipendente, disinteressata, autonoma. Non essendoci vantaggi, né incentivi (come in passato erano le tariffe agevolate per la postalizzazione delle riviste registrate, l’iva al 4% e altro), né contributi pubblici, gli enti del terzo settore scelgono la strada della comunicazione sul web e quella dei social network.
E allora una riflessione sulla qualità del lavoro sembra essere matura. La storia e l’elaborazione di Redattore Sociale ci hanno insegnato che l’informazione sociale non è più semplice, non è residuale, non è un servizio come un altro. L’informazione e la comunicazione sociale sono una fonte per gli altri giornalisti e i media.  Sono una variabile di sviluppo, per il terzo settore e per l’emancipazione di tutta l’opinione pubblica italiana, per la sostanza e la delicatezza dei contenuti che pongono e per la forma con cui vengono proposti. In epoca di esternalizzazioni galoppanti del lavoro, in ambito pubblico e privato, il terzo settore deve essere molto avveduto a non trattare con leggerezza il tema e a guardare al complesso delle implicazioni. La comunicazione e l’informazione sociale rappresentano nel terzo settore una originalità e un capitale sociale da coltivare e valorizzare, da aggiornare e contaminare anche attraverso scambi di competenze con vari ambiti universitari e professionali, con il settore pubblico e con quello privato. Senza smarrirne la titolarità e snaturarne l’identità.

Perché? Per emanciparsi dalla schiavitù del conformismo comunicativo. Bisogna lavorare su più livelli e in maniera multimediale, dai contenuti al linguaggio, dai canali da utilizzare ai criteri di notiziabilità. Il nemico era, ed è, l’autoreferenzialità. Se è vero che l’informazione e la comunicazione sociale propongono una diversa mappa cognitiva, furori dagli schemi. Per questo non basta l’influencer di grido e nemmeno la promessa di un risvolto etico del proprio agire: il sociale, e la comunicazione che produce, è una cosa seria, fatta di argomenti e comportamenti coerenti, èfatta di verità e di etica. Ad esempio: l’informazione da una parte, la pubblicità (pur utile in alcuni casi anche in ambito sociale) dall’altra. Il social washing non abita qui, la credibilità è la prima regola dell’informazione e della comunicazione sociale.
Giornalismo della strada che diventa una delle strade del giornalismo (del presente e del futuro), che si rivolge a tutti. Una forma democratica e plurale alla quale poter attingere alla fonte, non roboante nei toni e nel linguaggio, ma tutto il contrario: rispettosa degli altri, protagonisti di storia. Perchè gli altri, sei te. E allore si pone un terzo paradosso: un terzo settore maturo e consapevole quando comincerà in maniera approfondita e non marginale a porsi il problema di una autonoma e indipendente produzione editoriale? Anche di tipo informativo e narrativo? Si pone il problema di che cosa significhi farsi media, farsi editore e perché. Le domande sono aperte e sono rivolte a tanti soggetti, non ad uno solo. Si tratta di una prova di maturità sulla propria funzione sociale, già nitida in molti altri ambiti. Il terzo settore da solo non ce la fa, la fiducia nella comunicazione sociale come forma di conoscenza è importante, ma non basta. Occorre alimentare un sistema aperto, fatto di rapporti e scambi continui con le Università, con le Scuole di giornalismo, con il sistema dei media, con il sistema pubblico Rai. E con tutti i soggetti che si occupano di informazione e pluralismo, la Fnsi, gli Odg, l’AgCom, i Corecom regionali. Con i soggetti interni al terzo settore come le Fondazioni. Sino ai soggetti privati, ai broadcaster televisivi e della comunicazione multimediale, ai soggetti dell’industria editoriale. La consapevolezza e lo spontaneismo non sono sufficienti, serve una spinta forte e corale, serve costruire cultura manageriale.

In tutta Europa il sostegno pubblico all’editoria è considerato un investimento importante per la cultura,  la democrazia e l’economia. E’ scritto in maniera chiara nel Media Freedom Act approvato dal Parlamento Europeo nel marzo 2024 lo dice chiaramente: impedire alle grandi piattaforme online di limitare arbitrariamente la libertà di stampa, anche attraverso una equa distribuzione della pubblicità, a cominciare da quella istituzionale. Avviene in Italia a proposito dell’editoria del terzo settore? Sembra decisamente di no. Eppure quella è una strada da esigere a gran voce, puntando ad avere spazio su piattaforme di comunicazione indipendenti e pubbliche.
Come costruire i presupposti della crescita di editori sociali nel terzo settore? In qualche modo vicini all’utopia che il giovane Piero Gobetti, un secolo fa, chiamava “Editore ideale”. Lui che, poco più che ventenne, si occupava di scrivere, di pubblicare, di avere rapporti con i tipografi e commercializzare le sue realizzazioni editoriali (ricordiamo che fu il primo editore di un tal Eugenio Montale). Gobetti da studente universitario, intraprese la sfida editoriale come missione, come sfida al fascismo, alle censure, ai bavagli delle dittature.
Il terzo settore e le singole organizzazioni sociali, già attraversate da mille difficoltà, non possono farcela da sole, lo ripetiamo. C’è bisogno di soggettività politica che accresca la consapevolezza su questo tema all’interno del terzo settore, d’accordo, ma c’è bisogno anche di istituzioni responsabilmente predisposte a raccogliere questa spinta. In quanto spinta moderna per rendere attuale l’articolo 21 della Costituzione, riformare leggi di settore vecchie di quarant’anni, incentivare l’indipendenza, l’autonomia e l’imprenditorialità di chi oggi sceglie il giornalismo. E il giornalismo sociale in particolare.
Quella dell’informazione sociale è una prospettiva comunicativa che è molto avanti, forse troppo. Che propone, in maniera seria e responsabile, la rottura del diaframma tra chi fa e chi comunica. Fare e comunicare sono facce della stessa medaglia, che hanno interesse a utilizzare la prima regola del giornalismo professionale: il racconto della verità. È inattuale e lo sarà sempre, perchè propone il contrario di quello che è la comunicazione come prodotto: fuori dalla competitività, senza fermarsi allo spot o alla pubblicità, per costruire idee e consapevolezza nelle persone, per creare piattaforme di comunicazione indipendenti, spazi autonomi per reti di comunità, piccole o grandi, non fa differenza.
La storia di Redattore Sociale ci ha suggerito l’opportunità di un germoglio di nuova riflessione sull’editoria sociale che, sebbene molto sommaria, può rappresentare l’avvio di un approfondimento più ampio. Che, è bene ricordarlo, ci viene suggerita anche dall’art. 5 del recente Codice del Terzo settore, a proposito delle attività di interesse generale che un Ets (Ente di terzo settore) è chiamato a svolgere con “finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale”. Al punto i) si legge: “organizzazione e gestione di attività…incluse attività, anche editoriali, di promozione e diffusione della cultura e della pratica del volontariato e delle attività di interesse generale di cui al presente articolo”.
Proseguire nella strada della ricerca di soluzioni possibili è un contributo che ciascuno di noi può dare al futuro di Redattore sociale, consapevoli del debito di gratitudine che si deve ai pionieri, che in questo caso sono ogni singolo redattore e redattrice che in questi ventitré anni ha messo la propria professionalità al servizio di questa missione. Servono idee e progetti sui quali riflettere e magari, ripartire.


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