senza visione, leadership e capacità di azione il rischio è la disgregazione”

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“La fine dei conflitti sperata dall’insediamento di Trump rischia di concludersi in una illusione. Oggi l’Ue ha una limitata capacità di agire sulla scena globale a causa delle leadership o fragili o troppo nazionaliste”

Brando Benifei, eurodeputato dal 2014 e capodelegazione del Partito democratico al Parlamento europeo dal 2019 al 2024. Il 2024 ha lasciato in eredità guerre e disordine globale, dall’Ucraina al Medio Oriente. E il 20 di questo mese s’insedia alla Casa Bianca Donald Trump.
Il 2025 inizia con la speranza che possa essere l’anno di possibile conclusione di conflitti che vanno avanti da troppo tempo con troppe vite umane perse. L’invasione dell’Ucraina si avvicina al suo terzo tragico compleanno mentre l’attacco a Gaza e la strage di civili ancora in corso dopo l’azione terroristica di Hamas va avanti da più di un anno, con l’allargamento del fronte in Libano. Certamente la situazione ancora incerta in Siria non può non preoccuparci, così come la palpabile tensione che attraversa il regime iraniano, ma sarà anche la realpolitik degli interessi economici e della preoccupazione di una incontrollabile escalation che costringerà gli attori succitati a trovare delle strade per superare la situazione attuale. Bisognerà vedere in che termini: ad esempio, si parla molto nei media del fronte russo-ucraino a fronte dell’arrivo di Trump alla Casa Bianca, ma le sue prime mosse ci dicono molto sul rischio di una sostanziale mano libera accordata a Netanyahu dall’alleato americano, con un nuovo ambasciatore in Israele, ex candidato alle primarie repubblicane, Mike Huckabee, che negava la stessa esistenza di una questione palestinese. Ma la verità è che senza un nuovo ordine mondiale inevitabilmente basato su regole condivise le soluzioni ai conflitti in corso saranno fragilissime e magari dettate dall’ansia del nuovo leader americano di arrivare alla stretta di mano, all’accordo in favore di telecamere, ma la cui tenuta potrebbe essere limitata. Se sul fronte mediorientale c’è la forte preoccupazione che qualunque soluzione trovi sempre più umiliata la dignità del popolo palestinese e quindi rimanga una illusoria conclusione di un conflitto destinato a riaccendersi.

E sul fronte ucraino?
In Ucraina si intravede uno schema possibile: accettazione da parte del governo di Kyiv della cristallizzazione delle attuali conquiste territoriali russe, ovviamente senza un loro riconoscimento, in cambio di piene garanzie di sicurezza per il territorio che oggi è rimasto sotto il controllo di Zelensky. Certamente cosa farà e dirà il nuovo Presidente degli Stati Uniti dopo il 20 gennaio avrà un impatto inevitabilmente determinante, così come ciò che sceglierà di fare la Cina in relazione specialmente al suo rapporto con l’attuale vertice del Cremlino.

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In questo scenario che si apre davanti a noi nel nuovo anno, dov’è l’Europa?
Ha ragione Mario Draghi quando, sollecitato dai giornalisti sulla fattibilità fuori dalle emergenze di quei grandi cambiamenti proposti dal suo famoso Rapporto, a partire dalla creazione di un debito comune permanente e dalla ridiscussione del suo approccio sull’antitrust, ha esclamato con nettezza che nell’emergenza oggi l’Unione Europea ci si trova pienamente. L’emergenza di rilanciarsi e riorganizzarsi o regredire nel migliore dei casi a un mercato senza visione politica, scenario probabilmente impossibile perché senza istituzioni politiche non esiste neanche il mercato comune, o più probabilmente a disgregarsi progressivamente e trasformarsi in una mera unione di sicurezza, un braccio europeo della Nato senza nessuna ambizione di una visione comune sul futuro. Invece oggi, in questo mondo sempre più complicato, l’idea europea dello stato sociale, di libertà politiche e Stato di Diritto, richiede proprio di ritrovare slancio con una maggiore capacità di azione politica condivisa, a partire da chi ci sta.

L’Ue è attrezzata per far questo?
L’Unione a ventisette appare oggi gravata da molti limiti nella capacità di agire sulla scena globale frenata dal diritto di veto oltre che da troppe leadership politiche fragili o quando più stabili e solide, come oggi ancora è Giorgia Meloni, determinate a occuparsi soltanto di un consenso a breve termine e con idee legate più che al sovranismo a una vecchia concezione dell’Europa minima che appare fuori dal tempo. Insomma, ci vuole più realismo, anche se a qualcuno quanto sto dicendo può suonare come una provocazione: le utopie della destra tecnocratica e di quella nazionalista, l’idea di poter creare un’Europa unita senza conflitto politico e vera democrazia, oppure di poter vivere ancora di piccole patrie, si infrangono con la realtà che impone una pragmatica costruzione di una entità federale, di un’Unione più stretta per non scomparire. Ho ricordato il Rapporto di Draghi, ma va ricordato anche quanto ha detto e scritto in queste settimane Fabrizio Barca, criticando alcune delle impostazioni indicate dall’ex premier nel suo progetto: ritengo che sia possibile trovare una sintesi fra queste impostazioni e per alcuni aspetti ci aiuta un altro importante contributo, il Rapporto di Enrico Letta sul mercato interno che a mio parere è nell’immediato il più rilevante per l’azione di questo nuovo anno.
Insomma, le idee non mancano ma serve la politica.

Sul Medio Oriente, nonostante i ripetuti pronunciamenti dell’Europarlamento, di un riconoscimento europeo di uno Stato palestinese da parte dell’Ue non c’è traccia.
L’Unione europea uscita dalle urne delle elezioni di giugno 2024 e dalle ultime tornate elettorali nazionali è un’Europa spostata più a destra che non vede come priorità condivisa l’assunzione di una iniziativa per la tutela della legalità internazionale e del diritto umanitario nel drammatico contesto del massacro di civili a Gaza e della permanenza di ostaggi nelle mani di Hamas. L’impegno di Borrell e le sue parole chiare in questo ambito si sono scontrate con la divisione e la frequente contrarietà dei ministri degli Esteri dei paesi più nazionalisti. Anche in Europarlamento l’aria pare cambiata e sembra difficile immaginare di trovare la maggioranza necessaria per esprimersi sul riconoscimento della Palestina, così come in sede di Consiglio Affari esteri, per quanto riguarda i governi. Per questo è fondamentale che alcuni Stati membri aprano la strada e prendano l’iniziativa col sostegno delle forze politiche come la nostra, i Socialisti e Democratici, che rimangono il secondo gruppo politico in Europarlamento. Per essere degni della nostra storia, l’Italia e il suo governo dovrebbero prendere la stessa strada intrapresa da esecutivi come quello spagnolo e irlandese, perché oggi un riconoscimento della statualità palestinese è un piccolo ma importante contributo alla costruzione di una soluzione diversa dal mero trionfo della forza bruta sul diritto.

Fuori dalle polemiche nostrane sul reale peso della vicepresidenza Fitto, non ritiene che il profilo complessivo della “Von der Leyen 2” sia in forte continuità con la precedente Commissione?
La nuova Commissione Europea si è presentata a luglio con Ursula von der Leyen e poi a novembre con l’intero Collegio dei Commissari proponendo un programma con una certa continuità con i cinque anni precedenti: prosecuzione del Green Deal, apertura all’aggiornamento dei Trattati, completamento di normative in materia sociale. Un progetto che aveva infatti raccolto un consenso largo nel primo voto dell’Europarlamento subito dopo le elezioni europee. La conferma del nuovo esecutivo comunitario qualche mese dopo ha invece subìto un arretramento dei consensi: come mai? Ci sono diversi fattori: non solo la discussa e problematica scelta di allargare la rappresentanza delle vicepresidenze esecutive a un esponente dei Conservatori, a una destra che ha combattuto quindi tutto il programma della precedente Commissione, difendendo in ogni occasione Orban e l’estrema destra polacca fintanto che era al governo, ma anche, ad esempio, la frammentazione dei portafogli delle competenze dei Commissari europei, con personalità che appaiono estremamente legate ai loro governi nazionali e con minore autorevolezza dei predecessori. La conclusione è che oggi quindi il potere appare concentrato nelle mani di Von der Leyen e dei suoi più stretti collaboratori, il suo gabinetto e i Commissari che dipendono direttamente da lei e di cui si fida maggiormente, Dombrovskis e Sefcovic che dovranno gestire i delicati dossier dell’Economia e del Commercio internazionale. Perciò oggi noi dobbiamo inevitabilmente sperare che l’autonomia che la ha riconfermata Presidente, con cinque anni davanti e senza la possibilità di essere riproposta in questo ruolo per limite dei mandati, possa avere quell’ambizione che serve oggi a rimettere in moto il continente, con le imminenti elezioni tedesche dove un’affermazione molto netta dell’estrema destra, anche dovesse realisticamente rimanere all’opposizione, darà un ulteriore scossone alla costruzione europea.

Il Pd e l’Europa. Quali propositi per il 2025?
In questo inizio d’anno in cui guardiamo alle mosse di Trump, alle scelte che farà Von der Leyen, all’azione dei governi e alle dinamiche dell’Europarlamento, fondamentale sarà il ruolo sfidante dei progressisti e in particolare dei Socialisti e Democratici europei. Oggi, con meno governi nazionali siamo più deboli, ma siamo ancora il secondo gruppo parlamentare europeo e possiamo renderci decisivi, dimostrando che con l’estrema destra magari si può cercare di smontare le misure ambientali sgradite o approvare misure a tutela di qualche lobby amica, ma non si governa l’Unione con chi vuole smantellarla. Questo è un monito che congiuntamente ai Verdi e alle altre forze progressiste e di sinistra vogliamo e dobbiamo mandare ai liberali e ai popolari. Per noi la priorità oggi sono le misure per il lavoro, per redistribuire opportunità, tempo e redditi, per completare la transizione ecologica e digitale, per democratizzare l’innovazione, per dare forza e tutela ai diritti umani. Il Pd come prima forza del Partito Socialista Europeo nell’Eurocamera, con la guida del capodelegazione Nicola Zingaretti e della segretaria Elly Schlein e la presenza nella delegazione europea di esponenti come il Presidente del Pd Bonaccini è inevitabilmente alla testa di questo sforzo. Nei prossimi mesi dovremo affrontare molte discussioni complesse e capire anche come far sì che il nostro lavoro porti a dei risultati concreti e non a una mera testimonianza in uno scenario di crescente polarizzazione, ma siamo tutti pronti a fare la nostra parte.



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