Il terzo tempo della città – Chiesa di Milano

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Da Il Segno di gennaio

L’appello al riposo dell’Arcivescovo di Milano coglie quella che il filosofo coreano Byung-Chul Han definisce come società della stanchezza, quella che enfatizza la prestazione e il risultato, ma genera stanchezza e auto-sfruttamento. Questo stile di vita si riflette nella città, dove entrano in contrapposizione tempi e spazi, secondo logiche spesso prive di senso o sana ragionevolezza.

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L’ultimo Discorso alla città di Mario Delpini coglie quella stanchezza collettiva da cui pare che non riusciamo a riprenderci. In qualcuno questa stanchezza sprofonda piano piano nella depressione: un buio della mente e dei sentimenti. Siamo tutti immersi in una sorta di stato di sospensione permanente. Manca il tempo di mezzo, o il “terzo tempo” – se vogliamo usare una metafora rugbistica – quando al fischio dell’arbitro, a partita finita e a prescindere dal risultato, le due squadre dismettono i panni degli avversari e si ritrovano attorno un tavolo per mangiare e bere insieme. È un momento della condivisione e dell’amicizia, che trascende le rivalità sportive per trasformarsi in dialogo. Abbiamo pochissima confidenza progettuale con il tema del relax, relaxare, parola latina che rinvia al “lasciare andare”, al poter “rallentare”. Non vuol dire necessariamente non fare nulla, ma fare cose diverse da quelle consuete, che ci consentano di allentare la tensione e lo stress, di ritrovare una dimensione ludica e giocosa della vita, quella che ogni giorno mortifichiamo – soprattutto noi milanesi metropolitani – all’altare della produttività.

Che cosa succede a una comunità quando si sacrificano i luoghi della vita quotidiana? Quando prevalgono interessi economici e finanziari, puntando esclusivamente alla produzione di rendita per pochi? Un simbolo di questa tendenza è il turismo. Quello che una volta rappresentava una risorsa economica distribuita tra molteplici settori, oggi si è trasformato in un’economia estrattiva che sfrutta e depreda le risorse locali, impoverendo le città e spingendo i ceti più fragili fuori dai centri urbani. Milano, come molte altre città italiane, sta vivendo questa transizione: i grandi flussi turistici, alimentati da piattaforme come Airbnb, favoriscono il turismo di passaggio, a discapito delle famiglie, dei lavoratori e degli studenti. È ormai più facile trovare un bar o un ristorante aperto a tarda sera che un servizio di emergenza sanitaria.

Questo processo di mercificazione delle città ha un impatto diretto sul diritto alla casa. A Milano ci sono oltre 100 mila case vuote e 25 mila stanze disponibili per affitti brevi. Costruiamo case (di lusso) a ritmo crescente, senza che questa iper-produzione edilizia risponda alla domanda di case di famiglie e di giovani. È evidente che la scarsità di case non sia un problema di quantità, ma di equità e di pari opportunità nell’accesso. C’è prima di tutto un problema di regia e di regole pubbliche in grado di orientare il mercato abitativo, di evitare comportamenti speculativi ispirati al massimo guadagno e alla speculazione, di sostenere chi decida di affittare ad altri i propri alloggi. Milano rischia di perdere quel ceto medio che l’ha resa grande, un ceto che ha permesso alla città di essere un laboratorio di idee e di innovazione.

Se vogliamo invertire la rotta, dobbiamo riaffermare la centralità dell’abitare come diritto fondamentale, rivedendo le politiche pubbliche e creando regole che limitino l’avidità collettiva e la speculazione. In una società che ha visto accumulare ricchezze in modo sempre più disuguale, è essenziale che chi ha beneficiato delle condizioni favorevoli restituisca parte del suo successo, contribuendo a un’economia più giusta. In questo senso, il credito cooperativo e le banche “buone”, che sostengono i territori più fragili e aiutano le famiglie in difficoltà, rappresentano un’alternativa virtuosa alla logica del massimo guadagno.

Il riposo della città proposto dall’Arcivescovo non è solo un appello spirituale, ma un invito a riflettere su come possiamo vivere insieme in modo più giusto e sostenibile. Una città che riposa non è una città che smette di lavorare, ma una città che trova nuovi ritmi, che mette al centro le persone e non la ricerca del profitto a ogni costo.

È urgente un ripensamento su cosa sia la città, nel tempo in cui tutto ruota attorno all’individuo, privo di connessioni, di comunità, di un contesto condiviso. È un processo di impoverimento delle comunità, di contrazione dello spazio del “comune”, di privatizzazione dei luoghi pubblici, che si riducono a spazi di consumo. E tutti siamo immersi in questa cultura individualista.

Siamo sensibili alla salute, ma non ci mobilitiamo per difendere la sanità pubblica. Siamo preoccupati per l’educazione, ma non ci impegniamo per salvare la scuola. Curiamo il nostro benessere, ma non facciamo nulla per proteggere l’ambiente. La mancanza di una dimensione collettiva è oggi un problema cruciale, perché le grandi sfide che ci aspettano – da quella energetica (la necessità di produrre e consumare energia in modo diverso) a quella climatica (la lotta per mitigare gli impatti del cambiamento climatico), passando per la crisi sanitaria (rendere il diritto alla salute davvero universale) – richiedono proprio la capacità di convergere verso obiettivi comuni. Ci vogliono competenze politiche capaci di integrare istanze di crescita con la sostenibilità e le domande sociali. Il richiamo alla politica quest’anno non lascia spazio a dubbi di interpretazione. Ma è un appello anche a tutti noi cittadini, a non perdere la fiducia.

Ogni tanto a ricordarcelo riemerge il collettivo, come è accaduto a Valencia qualche settimana fa, quando abbiamo visto migliaia di persone – giovani, studenti, cittadini comuni, con stivali di gomma e pale in mano – correre in soccorso dei vicini, prima della politica, prima dell’esercito, prima del re.

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